Secondo il Rapporto 2022 di Cittadinanzattiva, nel sistema sanitario pubblico è necessario attendere 720 giorni per una mammografia, 375 per un’ecografia, un anno per una TAC, 6 mesi per una risonanza magnetica. Per visite diabetologiche, dermatologiche o reumatologiche non si scende sotto i 10 mesi. Non va meglio per gli interventi chirurgici: in cardiologia e ortopedia bisogna attendere almeno un anno. Fino a 6 mesi per un intervento oncologico.
Ma come è possibile? Ma quando abbiamo iniziato a drenare risorse dal Sistema Sanitario Nazionale a favore di altre realtà del settore? Chi ha deciso di disattendere così il dettame costituzionale?
Soltanto nello scorso decennio, tra tagli e minori entrate, la Sanità pubblica ha perso oltre 37 miliardi di Euro. Secondo il report dell’Osservatorio GIMBE “Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale”, il finanziamento pubblico è stato decurtato di circa 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie e di oltre 12 miliardi nel 2015-2019, quando alla Sanità sono state destinate meno risorse di quelle programmate per esigenze di finanza pubblica. In termini assoluti il finanziamento pubblico in 10 anni è aumentato di 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua (1,07%). Nello stesso range temporale, hanno superato l’85% degli adempimenti dei LEA, i livelli essenziali di assistenza. Si tratta di Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Piemonte e Lombardia. Nel 2019 Basilicata, Calabria, Campania, Molise, provincia autonoma di Bolzano, Sicilia e Valle d’Aosta non hanno raggiunto gli adempimenti: le regioni del Mezzogiorno hanno versato 14 miliardi di euro a quelle del Nord per far curare i propri cittadini, perdendo importanti risorse per il proprio sviluppo. Un Paese spaccato in due che tradisce i principi di universalità, equità, uguaglianza fondanti del Sistema Sanitario Nazionale.
La responsabilità politica è da distribuire in maniera quasi equanime a tutte le compagini governative che si sono susseguite dal 2000 ad oggi: analizzando le tendenze di lungo periodo, fra il 2000 e il 2023 la spesa è quasi raddoppiata in termini nominali, da 68 a 131 miliardi di euro, tuttavia, se si considera la spesa al netto dell’inflazione, l’aumento si riduce al 19%. L’aumento in termini reali si è verificato tutto nei primi anni del secolo; dopo la crisi finanziaria del 2008 e la successiva crisi dei debiti sovrani in Europa, si osserva una riduzione seguita da un lungo periodo di stabilità, che si è concluso solo nel 2020 con l’esplosione della pandemia. Questo aumento in termini reali rispetto al 2000 non basta a tenere il passo con la crescente domanda di servizi sanitari. Basti pensare che negli ultimi 20 anni gli over 65 sono aumentati di 2,5 milioni.
Governi di centro-destra e di centro-sinistra, intervallati da governi tecnici, tutti accumunati dalla stessa politica: tagliare gli investimenti nella Sanità pubblica, favorendo altresì una forte e indiscriminata privatizzazione del settore che ha, conseguentemente, aumentato l’ingiustizia sociale, ha prodotto il blocco delle assunzioni, introdotto il tetto alla spesa senza efficientare il servizio erogato così come periodicamente falsamente affermato dal ministro di turno. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: secondo l’ISTAT, nel 2020, il 7% della popolazione ha rinunciato a prestazioni sanitarie necessarie perché ritenute troppo costose o per liste di attesa troppo lunghe. Un fenomeno che riguarda quattro milioni di persone. Nel 2021 i cittadini italiani hanno speso 41 mld di euro per curarsi, erodendo salari e pensioni. 623 euro procapite con enormi diseguaglianze territoriali.
La pandemia ha evidenziato, qualora ce ne fosse ancora bisogno, il valore del Servizio sanitario pubblico e universale, conclamando l’insensatezza delle politiche fin qui adottate. Occorre invertire drasticamente la rotta: serve un cambiamento culturale che faccia aumentare la consapevolezza del suo valore in senso assoluto, bisogna recuperare lo spirito comunitario e fortemente democratico proprio della riforma del 1978 (!!), rendendola ovviamente conforme alla realtà sociale contingente ma che sappia riappropriarsi di una concezione più ampia di salute, intesa come riduzione dell’incidenza delle condizioni di malattia e non solo come erogatore di servizi ex post.
La grande manifestazione che si è svolta sabato 24 giugno a Roma, promossa dalla CGIL e da una vasta rete di associazioni laiche e cattoliche riunite nell’Assemblea ‘Insieme per la Costituzione’, ha voluto rendere evidente che – così come dichiarato dal Segretario Generale della CGIL Maurizio Landini nel corso di un attivo dei delegati tenutosi a Torino lo scorso 19 giugno – “quella della Sanità Pubblica è una questione nazionale: non riguarda solo chi lavora nella sanità, ma è un diritto previsto dalla Costituzione. Occorre che le Regioni facciano la propria parte e spendano i soldi per fare assunzioni”.