L’iniziativa referendaria della CGIL trae origine dall’esigenza di combattere le politiche neoliberiste che hanno profondamente trasformato il mercato del lavoro nell’ultimo decennio e dalla necessità di un ritorno a contratti di lavoro più tutelati, dignitosi, stabili e sicuri.
I tre pilastri della campagna referendaria sono:
- Protezione rafforzata dai licenziamenti illegittimi, mediante l’abrogazione dei moduli a tutele crescenti previsti dal Jobs Act;
- Contrasto alla precarietà del lavoro, attraverso il contenimento dei contatti a termine;
- Adeguate garanzie in materia di salute e sicurezza negli appalti.
Di seguito una rassegna commentata dei quattro quesiti referendari promossi dalla Confederazione.
“Quesito 1 “Lavoro Tutelato”
REFERENDUM: Abrogazione delle norme che impediscono la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamenti illegittimi
Iniziativa annunciata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n°87 del 13-4-2024
Quesito referendario:
«Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»”
Il primo quesito referendario promosso dalla CGIL ha l’obiettivo di abrogare integralmente le norme del cosiddetto “Jobs Act”, con cui è stato istituito il “contratto a tutele crescenti”, per tornare all’applicazione generalizzata dell’ articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella versione precedente la riforma, ove si prevedeva che il giudice, con la sentenza nella quale dichiarava la nullità del licenziamento in quanto illegittimo, potesse ordinare al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno derivato dal licenziamento di cui fosse stata dichiarata la nullità.
Fondamentale assunto del primo referendum è il superamento della ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori assunti ante e post Jobs Act. Il primo quesito referendario mira, infatti, a ripristinare, nelle unità produttive con più di quindici dipendenti, le tutele rafforzate contenute nel testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori precedente la riforma del mercato del lavoro, attuata con legge n. 92/2012, garantendo la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro nei casi di licenziamento illegittimo per assenza di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo o oggettivo.
Nell’attuale assetto normativo il diritto generalizzato alla reintegra non è più garantito dalla versione dell’art. 18 oggi in vigore. Difatti, con la “riforma Fornero” del 2012 la possibilità di reintegra è stata limitata ai casi meno gravi di licenziamento illegittimo e l’articolo 18 risulta applicabile solo ai dipendenti delle aziende di medio-grandi dimensioni (con più di quindici dipendenti), mentre per i lavoratori delle piccole imprese è attualmente prevista una tutela di natura esclusivamente indennitaria.
Nel corso dell’ultimo decennio il governo Conte I e la Corte Costituzionale sono intervenuti sul tema, aumentando significativamente le garanzie in favore dei dipendenti assunti con il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”. Attualmente, infatti, un dipendente assunto con il “Jobs Act” e licenziato ingiustamente può ricevere fino a 36 mensilità di indennizzo ma questa somma, pur integrando un adeguato ristoro, non garantisce una tutela piena dei contratti di lavoro.
Attraverso il referendum abrogativo la CGIL propone una garanzia più ampia, che vede nel ripristino della reintegra il principale strumento di tutela rafforzata dei rapporti di lavoro.
Quesito 2 “Lavoro Dignitoso”
REFERENDUM: Abrogazione delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese
Iniziativa annunciata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n°87 del 13-4-2024
Quesito referendario:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»
Il secondo quesito referendario promosso dalla CGIL si ispira alla necessità di intervenire a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori operanti in imprese che vedono impiegati fino a 15 dipendenti, eliminando il tetto massimo di 6 mensilità all’indennizzo attualmente previsto nelle realtà aziendali medio-piccole in caso di licenziamento illegittimo.
Effetto dell’eventuale approvazione del quesito da parte del corpo elettorale sarebbe la riformulazione dell’articolo 8 della legge n. 604/1966 come segue: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un’indennità di importo minimo di 2,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti.”.
L’ampliamento della tutela indennitaria mira a dissuadere i datori di lavoro dal ricorso a “facili licenziamenti” e contestualmente, a restituire dignità e tutela rafforzata ai lavoratori che operano in imprese di dimensioni più contenute, ma non per questo necessariamente più deboli dal punto di vista economico.
La Corte costituzionale, intervenendo sul tema delle dimensioni aziendali nella sentenza n. 183 del 2022, ha sostenuto che “il numero dei dipendenti non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro” e ha contestato recisamente il “limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”, applicabile a datori di lavoro – imprenditori e non – che di fatto possono esprimere realtà produttive molto diverse tra loro, a prescindere dal numero di dipendenti.
La citata sentenza della Corte costituzionale, depositata il 22 luglio 2022, ha affrontato diffusamente la problematica della legittimità costituzionale della norma del Jobs Act (art. 9 del d.lgs. n. 23/2015) che prevede, in caso di licenziamento illegittimo di un datore di lavoro con meno di 16 dipendenti, solo un indennizzo economico da 3 a 6 mensilità e nel caso di un numero di dipendenti superiore a 15 tra le 6 e le 36 mensilità.
Ripercorrendo l’iter argomentativo della Corte Costituzionale, chiamata dal Tribunale di Roma a valutare, da un lato, se il suddetto requisito numerico sia ancora determinante per individuare le reali dimensioni di un’impresa e dall’altro, se lo scarto tra quel minimo e quel massimo consenta al giudice di applicare correttamente al caso concreto una sanzione adeguata e dissuasiva, si rileva come la Corte riconosca espressamente che “L’assetto delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle sue più risalenti pronunce. La reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario”. In pratica, se prima del Jobs Act un licenziamento ingiustificato in imprese con più di 15 dipendenti portava sempre alla reintegrazione (tutela reale), oggi non è più così poiché attualmente la regola è tendenzialmente la tutela monetaria ma “la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto”.
La sentenza ha espressamente riconosciuto che l’esiguo divario tra un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza”, richiamando tutti i criteri rilevanti già enucleati in precedenti pronunce della stessa Corte costituzionale (dimensioni dell’attività economica, anzianità di servizio del dipendente, comportamento e condizioni delle parti) e ribadendo che il licenziamento deve essere sempre considerata l’extrema ratio.
Al quesito se sia ragionevole trattare allo stesso modo realtà così differenti (si pensi a un piccolo bar con un solo dipendente, paragonato – ad esempio – ad una società come Instagram che quando, nel 2012, è stata acquistata da Facebook per un miliardo di dollari, aveva 13 dipendenti) la Corte implicitamente così risponde: “il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…” Anzi, “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.”
Dopo aver evidenziato la scarsa valenza di un “limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”, applicabile a datori di lavoro – imprenditori e non – e quindi ad attività tra loro eterogenee, che hanno in comune solo il dato numerico dei dipendenti occupati – la Corte dichiara che tale sistema “non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi. E conclude riconoscendo “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente”, nonché “la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.”
Sulla base di queste premesse, assolutamente condivisibili in quanto formulate in accoglimento dei rilievi del Tribunale di Roma e delle note scritte depositate dalla CGIL e dall’Associazione Comma2 – Lavoro è dignità, richiamate al punto 4 della sentenza, il Giudice delle leggi rivolge un monito e un invito al legislatore, a intervenire per razionalizzare la disciplina normativa attualmente vigente.
Considerata la perdurante inerzia del legislatore, il referendum promosso dalla CGIL si propone di sbloccare una situazione stagnante, dal momento che l’abrogazione del tetto massimo all’indennizzo restituirebbe al giudice, qualora consideri il licenziamento illegittimo, la potestà di riconoscere una tutela adeguata al lavoratore, in considerazione di diversi parametri, come l’età, i carichi familiari, la capacità economica dell’azienda, senza limitazioni in punto di quantum dell’indennità da accordare.
Quesito 3 “Lavoro Stabile”
REFERENDUM: Abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine
Iniziativa annunciata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n°87 del 13-4-2024
Quesito referendario:
«Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»
Il terzo quesito referendario promosso dalla CGIL origina dalla ferma convinzione che sia assolutamente necessario combattere l’attuale precarietà del lavoro, contrastando l’abuso dei contratti a termine, la cui legittimità dovrebbe essere limitata a causali specifiche e temporanee.
Secondo l’Istat sono tre milioni gli occupati a termine in Italia, in tutti i settori, nel privato come nel pubblico.
Incidendo sulle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo dei contratti a termine da parte delle imprese, si intende ripristinare una disciplina simile a quella vigente in Italia nell’arco temporale tra il 2001 e il 2011, prima che il governo Monti e il governo Letta iniziassero progressivamente ad allentare le maglie della normativa riguardante i contratti di lavoro a tempo determinato.
Negli ultimi anni si è giunti a quote paradossali di lavoro precario, avallate da una schizofrenia legislativa che ha indotto i diversi esecutivi in carica a riformare continuamente e strumentalmente i rapporti a termine per finalità politiche. Si è passati così, in poco tempo, dal governo Renzi che ha ampliato la possibilità di utilizzare i contratti a tempo determinato, al cosiddetto “decreto dignità” del primo governo Conte che, di contro, ha ripristinato rigidi paletti alla contrattazione a termine, poi di nuovo parzialmente rimossi dal governo Meloni attualmente in carica.
La CGIL è fermamente convinta che il contratto a termine costituisca un modulo per definizione temporaneo, giustificabile solo alla luce di esigenze transitorie cui far fronte, come sostituzioni per maternità, picchi produttivi, stagionalità ecc. L’aberrazione sta nel generalizzare il ricorso a tale tipologia contrattuale semplicemente perché l’attuale normativa lo consente, senza che siano ravvisabili e documentabili reali necessità temporanee e senza l’apposizione di alcun limite temporale.
Con il referendum si intende, pertanto, abrogare le norma che consente di stipulare contratti a temine senza alcuna causale giustificativa, fissando un tetto massimo di 24 mesi ai rinnovi e alle proroghe, senza eccezioni di sorta.
L’abrogazione dell’articolo 19 D. Lgs. n. 81/2015 travolgerà anche l’ultimo testo dello stesso articolo, recentemente emendato dal Decreto Lavoro varato dal governo Meloni, che ha introdotto le seguenti, nuove causali di assunzioni a termine:
«1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni:
a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51;
b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti;
b-bis) in sostituzione di altri lavoratori».
Improntata a generiche esigenze di flessibilità risulta anche la disciplina di proroghe e rinnovi del contratto di lavoro a termine
Difatti, ai sensi del nuovo art. 21, co. 01, D. Lgs. n. 81/2015:
«Il contratto può essere prorogato e rinnovato liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente, solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1. In caso di violazione di quanto disposto dal primo periodo, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato. I contratti per attività stagionali, di cui al comma 2 del presente articolo, possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1».
Il Decreto Lavoro, come convertito, ha inoltre stabilito che «ai fini del computo del termine di dodici mesi previsto dall’articolo 19, comma 1, e dall’articolo 21, comma 01, del decreto legislativo n. 81 del 2015, come modificati […] si tiene conto dei soli contratti stipulati a decorrere dalla data di entrata in vigore» del Decreto medesimo. Si segnala da ultimo, tra le novità introdotte dal Decreto Lavoro, la possibilità, per i datori di lavoro che operano «nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento», ed occupano fino a 25 lavoratori subordinati a tempo indeterminato, di utilizzare prestazioni di lavoro occasionali con limite complessivo di compensi pari ad Euro15.000.
Alla luce delle osservazioni precedenti si comprende che, nonostante i divieti previsti dalla normativa europea, la pletora di contratti a termine stipulati nel nostro Paese ha contribuito a determinare un quadro di precarietà diffusa.
Con il referendum si mira a contenere il termine di durata massima dei contratti eccedente i 24 mesi nei soli casi tassativamente previsti:
- Dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D. lgs. 81/2015 (per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria).
- Per esigenze stringenti di sostituzione di altri lavoratori.
Nell’ipotesi di stipula di un contratto in violazione delle predette condizioni, è prevista una specifica sanzione in base alla quale il contratto a termine si trasforma automaticamente in contratto a tempo indeterminato.
Quesito 4 “Lavoro Sicuro”
REFERENDUM: Abrogazione delle norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante
Iniziativa annunciata sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n°87 del 13-4-2024
Quesito referendario:
«Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?»
Obiettivo del quarto quesito referendario è l’abolizione della norma che esclude la responsabilità solidale delle imprese appaltanti e subappaltanti nei casi di infortunio e malattia professionale dei lavoratori che operano alle dipendenze di aziende appaltatrici e subappaltatrici.
L’iniziativa si inquadra nell’ambito dell’azione politica della CGIL per una tutela rafforzata della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e mira a combattere l’attuale deresponsabilizzazione e la sostanziale immunità delle imprese committenti negli appalti e subappalti, con la finalità di sancire il principio di corresponsabilità anche nel risarcimento dei danni differenziali, quelli cioè non indennizzati da parte di enti previdenziali.
La maggiore tutela che si otterrebbe dal buon esito del referendum discende dalla garanzia, in caso di infortuni o malattie professionali, di un’integrale copertura dei danni subiti dalle lavoratrici e dai lavoratori delle ditte appaltatrici, tanto più auspicabile quanto più l’impresa appaltatrice o subappaltatrice sia di dubbia solidità o cessi, nel corso dell’esecuzione delle opere, la propria attività.
La portata del principio giuridico in base al quale anche il committente è titolare di una posizione di garanzia in forza della quale, in caso di infortuni sul lavoro o malattie professionali, possa essere chiamato a rispondere del pregiudizio subito dal lavoratore, è stato espresso recentemente dalla Corte di Cassazione, terza sezione Civile, nell’ ordinanza n.9178/23, depositata il 3 aprile 2023.
I ricorrenti avevano contestato la sentenza della Corte di Appello territoriale che non aveva ritenuto applicabile il Decreto Legislativo n. 494 del 1996, dal quale emergeva la posizione di garanzia dell’impresa committente in affiancamento a quella degli altri soggetti investiti di obblighi in materia di sicurezza, a partire dal datore di lavoro dell’infortunato, in particolare quanto alla vigilanza sull’idoneità e sul rispetto dei piani di sicurezza e pertanto, sia del PSC (piano di sicurezza e coordinamento) che del POS (piano operativo di sicurezza), dei quali era documentalmente emersa la discrasia.
Gli eredi del lavoratore deceduto avevano censurato il fatto che i giudici territoriali non avessero considerato che l’impresa committente si era specificamente assunta la responsabilità di cooperare con le ditte subappaltatrici perché venissero attuate idonee misure di prevenzione e sicurezza.
La Suprema Corte, nell’esaminare il ricorso, rileva che – soprattutto in sede penale ma con principi applicabili anche in sede di distinto scrutinio della responsabilità civilistica da infortuni sul lavoro – a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, ritenuto “ratione temporis” normativa di riferimento dalla stessa Corte territoriale, “il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, dal quale non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori, sicché, ai fini della configurazione della responsabilità del suddetto, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché all’ agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo”.
Aldilà della discussione sulla specificità del rischio in questione, ovvero se correlabile ai lavori eseguiti in autonomia dalla subappaltatrice, resta il fatto che la discrasia dei piani (PSC E POS) era facilmente evincibile perché, come detto, documentale, rispetto a una modalità operativa risultata propria del cantiere, sicché non avrebbe potuto aprioristicamente escludersi sul punto la posizione di garanzia di committente e appaltatrice.
Secondo la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello avrebbe dovuto verificare se l’omessa richiesta di allineamento dei due piani in funzione della più idonea sicurezza avesse integrato una condotta omissiva tale da contribuire causalmente, in chiave probabilistica, all’evento, consistito in una caduta per omesso fermo delle cinture di sicurezza indossate dal lavoratore.
E’ un dato incontrovertibile della nostra economia che la realizzazione di opere pubbliche e private avvenga ormai sempre più spesso attraverso il ricorso ad appalti e subappalti, nel cui ambito la frequenza di infortuni sul lavoro sta raggiungendo livelli allarmanti.
Il quesito politico che la CGIL pone al centro dell’iniziativa referendaria è se la legislazione vigente possa essere considerata adeguata ed efficace ai fini della prevenzione.
La tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, oltre che attraverso il decreto legislativo 81/08, ha registrato un’importante evoluzione nel corso degli ultimi anni ad opera della giurisprudenza, che ha elaborato e sviluppato il cosiddetto “principio della responsabilità solidale” fra committente/appaltatore/subappaltatore. Tale principio dovrebbe essere compiutamente normato dal legislatore che, tuttavia, tarda a tracciarne una disciplina uniforme, probabilmente per timore di incidere su un ambito notevolmente redditizio, quale il settore degli appalti. Cionondimeno, non sembra più procrastinabile un intervento legislativo che armonizzi principi di civiltà già ampiamente acquisiti dalla cultura giuridica e sindacale.
Al principio della responsabilità solidale può riconoscersi un indiretto valore anche ai fini della prevenzione. Difatti il committente, per la realizzazione dell’opera o del servizio, ha interesse ad entrare in rapporto contrattuale con imprenditori puntuali nel pagamento delle retribuzioni e nel versamento dei contributi previdenziali, pena il dover sopportare in proprio il costo degli inadempimenti dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Orbene, se la correttezza nell’adempimento delle obbligazioni retributive e contributive non implica sempre e comunque un’attenzione concreta all’esigenza della sicurezza nei luoghi di lavoro, appaltatori o subappaltatori protagonisti di un sistematico inadempimento delle predette obbligazioni facilmente tralasciano anche la tutela della salute dei propri collaboratori. Senonché, nonostante l’interesse del committente ad un controllo continuo sulla correttezza del comportamento dell’appaltatore, capita spesso che la responsabilità solidale venga evocata al termine dell’appalto. Questo, verosimilmente, per varie ragioni, fra le quali l’oggettiva difficoltà di un controllo continuativo in itinere.
Su queste problematiche appare utile il servizio reso disponibile dall’Inps per il monitoraggio della congruità occupazionale negli Appalti (MoCOA). Il MoCOA si fonda su un’attività di incrocio tra i dati dei lavoratori impiegati in appalto/subappalto e quelli poi effettivamente denunciati in UNIEMENS dagli appaltatori/subappaltatori. Il sistema, infatti, elabora un report mensile, denominato “Documento Congruità Occupazionale Appalti” (DoCOA), che evidenzia eventuali discordanze e/o incongruenze nei dati dichiarati in UNIEMENS dall’appaltatore e dal subappaltatore e quelli registrati in MoCOA. In questo modo, il committente può verificare mensilmente la correttezza del comportamento del/i partner contrattuale/i. La valenza generale di questo servizio ha, tuttavia, un presupposto: richiede, infatti, che i lavoratori dichiarati all’Inps da parte dall’appaltatore e dagli eventuali subappaltatori corrispondano a tutti quelli effettivamente impegnati nell’esecuzione dell’appalto e del subappalto. Emerge, così, un punto ineludibile: quello della verifica continuativa dei lavoratori di fatto impegnati nell’esecuzione delle attività appaltate. Punto ineludibile poiché non si può accettare di scoprire la presenza di lavoratori non dichiarati solo dopo un infortunio.
Dal punto di vista che si è assunto, direttamente interessato alla verifica dei lavoratori impegnati è soprattutto il committente: solo grazie a tale verifica si può accertare che, di mese in mese, non si produca una sua responsabilità solidale.
L’impiego di lavoratori non dichiarati, sia chiaro, è già sanzionato (si pensi alla cosiddetta maxi-sanzione). Ciò non fa venir meno l’utilità di pensare a misure che, anche attraverso l’impiego di mezzi tecnologici, informino sulle presenze effettive, facendo leva sull’impegno dei committenti interessati alla piena coincidenza fra gli organici dichiarati all’Inps dagli appaltatori e dai subappaltatori e quelli effettivi.