
Perché l’educazione affettiva è una risposta necessaria ai femminicidi in Italia
Nel 2025 in Italia i femminicidi continuano a crescere, mentre nel dibattito pubblico si discute se sia “opportuno” parlare di educazione affettiva nelle scuole. In questa intervista affrontiamo il tema della violenza di genere, dell’urgenza di introdurre l’educazione sessuo-affettiva e delle responsabilità culturali che ancora oggi alimentano stereotipi e ignoranza emotiva.
Un dialogo necessario, per ribadire un messaggio semplice e fondamentale: ci vogliamo vive, sempre.
Intervista alla Segreteria della FISAC CGIL Emilia Romagna.
Qual è la situazione dei femminicidi in Italia nel 2025?
I dati aggiornati al momento in cui parliamo parlano chiaro: 77 femminicidi e almeno 62 tentati femminicidi dall’inizio dell’anno. Numeri che mostrano che la violenza di genere non è un’emergenza improvvisa, ma un fenomeno radicato nella cultura del nostro Paese.
In questo contesto, cosa pensa della polemica sull’educazione all’affettività nelle scuole?
È stata una discussione sorprendentemente lunga, guidata da posizioni – come quella del Ministro Valditara – che definire anacronistiche è poco. Secondo il Ministro, parlare ai ragazzi di corpo, desiderio, consenso e rispetto sarebbe “pericoloso”.
Paradossalmente, ciò che non viene ritenuto pericoloso sono pornografia, pubblicità sessiste o i modelli violenti diffusi dagli algoritmi online. Il vero “problema”, invece, sarebbe insegnare ai giovani come vivere le emozioni in modo sano e consapevole.
Perché ritiene che l’educazione sessuo-affettiva sia necessaria già nell’adolescenza?
Perché desiderio, paura, consenso, relazioni non aspettano la maggiore età. I ragazzi iniziano molto presto a vivere emozioni complesse, e non dare loro gli strumenti per comprenderle significa condannarli a un’ignoranza emotiva che può diventare pericolosa.
È tragico, ma chi oggi invoca la “difesa dei bambini” è spesso lo stesso che li priva della capacità di riconoscere e gestire ciò che provano.
Lei parla di un legame tra ignoranza emotiva e patriarcato. In che senso?
Il rifiuto dell’educazione affettiva nasce da un’antica idea patriarcale: controllare la conoscenza significa controllare le persone.
Chi pretende che la sessualità resti un tabù spesso immagina ancora il corpo come qualcosa di sporco, da nascondere, da imparare in segreto e magari proprio da contenuti online che normalizzano dominazione e violenza.
Vietare l’educazione affettiva è secondo lei un atto politico?
Assolutamente sì. Non è un dettaglio tecnico: è un tassello di una strategia culturale che attraversa linguaggio, scuola, media e religione.
Si inizia dicendo che “ministra” non si può dire, si continua affermando che l’educazione di genere “confonde”, e si finisce per non vedere le donne nemmeno quando muoiono. Il linguaggio – come l’educazione – non è questione di parole: è questione di potere.
Quindi i femminicidi non sono casi isolati?
No. I femminicidi non sono mostruosità inspiegabili: sono l’espressione più brutale di una cultura che normalizza il possesso, la gelosia, l’“amore malato”.
Se un ragazzo uccide una ragazza non possiamo cavarcela dicendo “era un bravo ragazzo”, perché quel delitto nasce da un modello sociale interiorizzato.
Le nuove generazioni non sembrano più consapevoli delle precedenti?
Purtroppo no. Gli episodi recenti – catcalling, stalking, stupri, violenze di gruppo – spesso coinvolgono ragazzi giovanissimi. Questo significa una cosa soltanto: senza educazione, non evolviamo. I giovani riproducono la cultura che respirano in famiglia, online, nella società. L’ignoranza, in questo campo, non è mai neutra: è una scelta. E alimenta la violenza.
Qual è il rischio di lasciare che le nuove generazioni crescano senza strumenti emotivi?
Il rischio è che il corpo femminile resti un oggetto, un territorio da conquistare. L’educazione sessuo-affettiva serve proprio a insegnare che quel “territorio” è una persona libera e consapevole.
Vietarla oggi, mentre i femminicidi non si fermano, significa tornare a dire alle donne che devono essere educate al pudore, non alla libertà.
Il Ministro ha poi parzialmente ritirato la proposta. È abbastanza?
È un passo, ma non basta. È paradossale che lo Stato – che dovrebbe combattere la violenza di genere – sia stato così miope da ostacolare proprio lo strumento più importante per prevenirla: l’educazione.
Cosa dovrebbe fare la scuola, concretamente?
Dovrebbe diventare una rivoluzione culturale. Una palestra dove ragazze e ragazzi imparano che l’altro non è un possesso, ma un essere umano nella sua pienezza. Codici rossi e leggi arrivano sempre dopo, quando è tardi. La prevenzione nasce in classe, nelle parole, nella conoscenza.
Se dovesse riassumere il suo messaggio in una frase?
Ci vogliamo vive, sempre. E per riuscirci, dobbiamo cambiare la cultura. Da scuola. Subito.