Un confronto tra sindacati, banche, fondazioni e media
Introduzione – Rita Querzè (Corriere della Sera)
Il punto di partenza del confronto è semplice e drammatico allo stesso tempo: la cosiddetta “rivoluzione femminile nel lavoro” in Italia è rimasta sospesa a metà.
Dagli anni Cinquanta in poi le donne hanno conquistato un ruolo pubblico oltre quello domestico, ma il cambiamento non si è completato. Oggi lavora poco più della metà delle donne italiane e, tra chi lavora, molte sono impiegate in posizioni precarie o part-time non scelti. Le retribuzioni, come certificato dagli ultimi dati INPS, restano inferiori di circa il 29% rispetto a quelle degli uomini.
Questa disparità economica non è un aspetto marginale: rappresenta la parte sommersa dell’iceberg della violenza di genere. La violenza fisica è la punta visibile, ma sotto di essa c’è l’enorme massa delle disuguaglianze economiche, dell’assenza di autonomia e del mancato controllo sul proprio denaro.
L’obiettivo dell’iniziativa è capire cosa si può fare – in modo concreto – per accelerare una trasformazione culturale, economica e sociale che da troppi anni procede lentamente.
Nicole Vazzano (First CISL Lombardia)
“Regina di Denari”: ricostruire l’autonomia finanziaria nei centri antiviolenza
Dalla riflessione sui dati è nato un progetto condiviso da First CISL, FISAC CGIL e Wilka Lombardia: “Regina di Denari”, un percorso di educazione finanziaria inserito direttamente nei centri antiviolenza della regione.
La motivazione è chiara: la fragilità finanziaria femminile in Italia rimane molto diffusa ma spesso invisibile. Una parte significativa delle donne non ha un proprio conto corrente, né un accesso diretto al denaro. Un dato che, tradotto, significa milioni di donne che non possono compiere scelte autonome nella vita quotidiana.
Il progetto porta nei centri antiviolenza le competenze delle sindacaliste che, lavorando ogni giorno nelle banche, conoscono perfettamente strumenti come conti correnti, carte, finanziamenti e pianificazione economica.
Il punto centrale è semplice ma potentissimo: il conto corrente è potere. La possibilità di aprirlo da sole, di usarlo consapevolmente, di scegliere se cointestarlo e con chi, rappresenta un passaggio fondamentale per ricostruire dignità, sicurezza e indipendenza.
Nelle aule si lavora anche sulla capacità di leggere un contratto, di fare domande prima di firmare, di comprendere creditizie e strumenti di pagamento. Molte donne scoprono di possedere già competenze di pianificazione economica, ma di non averle mai considerate tali.
“Regina di Denari” non è solo un progetto formativo: è una forma di giustizia sociale, che restituisce potere a chi lo ha perduto o non lo ha mai avuto.
Annamaria Tarantola
Il lavoro come prima forma di libertà economica
La violenza economica, spiega Tarantola, comprende tutte le pratiche che limitano l’autonomia finanziaria di una donna: dal controllo del reddito, alle decisioni unilaterali sulle spese familiari, fino alla mancanza di accesso al lavoro o di un salario equo.
L’indipendenza economica, secondo l’ONU, è lo strumento principale per ridurre la violenza sulle donne. Possiamo parlare di libertà solo se esistono un lavoro, una retribuzione adeguata e reali opportunità di crescita professionale.
Il mondo del lavoro, però, rimane segnato da un forte squilibrio: il tasso di occupazione femminile, pur leggermente migliorato, resta molto distante da quello maschile. Anche chi lavora spesso incontra ostacoli nell’avanzamento di carriera o si ritrova in settori meno retribuiti.
Tarantola sottolinea che non si tratta solo di responsabilità politiche: la qualità della domanda di lavoro dipende dalle imprese, che attraverso politiche di assunzione, promozione e remunerazione possono perpetuare stereotipi e discriminazioni o, al contrario, contribuire a scardinarli.
La Fondazione Giulia Cecchettin lavora proprio su questo: percorsi formativi nelle aziende, rivolti sia ai dipendenti sia ai dirigenti, per riconoscere tutte le forme di violenza – da quella economica a quella psicologica, digitale o fisica – e per creare vere e proprie “sentinelle” capaci di intercettare segnali deboli.
Nelle aziende emergono indicatori preziosi: per esempio lo stipendio accreditato sul conto di un’altra persona può essere un segnale che consente, con delicatezza e riservatezza, di instaurare un dialogo.
Tarantola ricorda infine un dato decisivo: le aziende con più donne nei consigli di amministrazione performano meglio e falliscono meno. Non perché le donne siano “migliori”, ma perché la diversità nei vertici genera scelte più equilibrate e una migliore capacità di valutazione. La domanda dunque rimane: perché non farlo?
Teresa Masciopinto (Fondazione Finanza Etica / Gruppo Banca Etica)
Banche e violenza economica: un nuovo modo di fare relazione
Per Masciopinto la questione dell’autonomia economica è innanzitutto sistemica: riguarda cultura, economia e strutture patriarcali che regolano l’accesso alle risorse.
Banca Etica ha deciso di intervenire proprio laddove questo condizionamento si manifesta ogni giorno: nella relazione tra cliente e banca. Così nasce “Monetine”, un progetto che introduce un modo diverso di fare banca, basato sulla capacità di riconoscere fragilità, segnali di controllo e storie complesse dietro una normale operazione sportellistica.
Il progetto prevede la formazione diffusa di chi lavora nelle filiali, sia nel front-office sia nelle funzioni più tecniche. È stato creato anche un vademecum dedicato e un comitato specializzato che supporta colleghe e colleghi quando emergono situazioni delicate che possono richiedere il coinvolgimento dei centri antiviolenza.
Masciopinto ricorda che la violenza economica non riguarda soltanto le donne più fragili. Può colpire anche chi guadagna molto, chi ha ruoli apicali, chi percepisce uno stipendio più alto del partner e per questo vive dinamiche di controllo o colpevolizzazione.
Accanto al lavoro interno alle filiali, Banca Etica lavora anche con imprese e fondazioni – come Fondazione Libellula – per favorire l’accesso al lavoro delle donne uscite da percorsi di violenza e per diffondere una cultura d’impresa capace di riconoscere la violenza economica prima che diventi irreversibile.
Simona Pedrali (FISAC CGIL Lombardia)
Quando da novembre si lavora gratis
Pedrali richiama un’immagine potente: l’Equal Pay Day. In Italia, a causa del divario retributivo, è come se da metà novembre le donne lavorassero gratis fino alla fine dell’anno.
Il gender pay gap è evidente sin dall’inizio della carriera: a un anno dalla laurea, con lo stesso titolo e le stesse competenze, le donne guadagnano già sensibilmente meno degli uomini.
Questo divario cresce con il tempo, perché le interruzioni di carriera dovute ai carichi di cura ricadono ancora quasi esclusivamente sulle donne. Anche nelle coppie con figli la disparità è netta: lavora il 57% delle donne contro l’86% degli uomini.
Le conseguenze non si fermano alla fase lavorativa ma arrivano fino alla pensione: meno attività lavorativa, meno contributi, pensioni più basse, maggiore vulnerabilità economica.
Pedrali richiama anche la direttiva europea sulla trasparenza retributiva, che proibisce alle aziende di basare la retribuzione sullo stipendio precedente – pratica che penalizza in modo sproporzionato le donne – e introduce l’obbligo di rendere trasparenti criteri e livelli retributivi, superando uno dei tabù più radicati: il silenzio sugli stipendi.
Paola Mencarelli (FISAC CGIL)
Il tabù culturale delle donne e del denaro
Mencarelli affronta il nodo culturale del rapporto tra donne e soldi. Per generazioni, molte hanno sentito dire che “le signore non parlano di denaro”. Ma questo silenzio produce effetti profondi: rende difficile contrattare stipendi, chiedere ciò che si vale, confrontarsi con altre donne, rivendicare il proprio valore nel mercato del lavoro.
La discriminazione economica, normalizzata, finisce per diventare parte del paesaggio. Diventa normale che lo stipendio di una donna venga destinato alle spese familiari, mentre quello del partner agli investimenti; normale che sia la donna a rinunciare alla carriera quando la famiglia ha bisogno di cura; normale che la disparità retributiva sia accettata come “parte delle cose”.
Il lavoro del sindacato consiste proprio nel rendere esplicite queste pieghe nascoste: portare alla luce gli squilibri, correggerli nei tavoli negoziali, inserirli negli accordi, costruire condizioni che spezzino l’automatismo della discriminazione.
Conclusione – Rita Querzè
Una donna, un lavoro, un conto corrente
Dopo anni trascorsi a raccontare gli stessi divari, nasce l’idea di un’alleanza ampia e trasversale che unisca banche, sindacati, associazioni di impresa e media. Il titolo è insieme semplice e rivoluzionario: “Una donna, un lavoro, un conto corrente”.
Il percorso, avviato coinvolgendo ABI, Federcasse, Confcommercio e Confindustria, è pensato per rimanere aperto. L’obiettivo è costruire una rete stabile e operativa, capace di attivare progetti, risorse e competenze.
Ogni intervento ascoltato dimostra che nessun soggetto, da solo, può cambiare il sistema. La chiave è unire tutti i pezzi del puzzle: le competenze delle banche, la presenza dei sindacati nei luoghi di lavoro, il ruolo delle imprese nella domanda di lavoro, l’azione culturale e di prevenzione delle fondazioni, la capacità dei media di costruire una narrazione nuova e più consapevole.
Solo così si può sperare di accelerare la rivoluzione incompiuta dell’autonomia economica femminile e ridurre quel divario di tempo che oggi separa le donne da una piena parità.
Il percorso è avviato. La strada resta lunga, ma finalmente si sta percorrendo insieme.