Nel 2011, come Fisac e Cgil Emilia Romagna decidemmo di organizzare un convegno dal titolo emblematico “lezioni dalla crisi”. Sono passati 5 anni, ma possiamo dire che la lezione del 2011 sia servita? Purtroppo credo di no, infatti negli anni successivi abbiamo registrato una situazione in ulteriore avvitamento; diverse aziende di credito sono entrate in difficoltà e probabilmente il fondo non è stato ancora toccato. Come Fisac e Confederazione dal 2013 sosteniamo come sia necessario un sistema bancario in grado di finanziare la ripresa, una banca al servizio del paese, che operi attraverso pratiche di Responsabilità Sociale e di Buona Finanza. Oggi per ripartire si pone però un ulteriore problema a monte: è necessario affrontare il tema della fiducia del risparmiatore, ricostruire ciò che in questi anni è andato distrutto. La domanda è come si può ricostruire quella fiducia?
relazioni introduttiva convegno 2016
il caso Carife 17062016
Il caso Carife
www.fisac-cgil.it www.cgil.it www.cgilfe.it www.rassegna.it
I piatti indigesti serviti al nostro territorio dalle sue banche locali non sono ascrivibili solo a qualche capo cuoco, ma anche ai padroni del ristorante. Il padrone del ristorante per lungo tempo in Carife è stata la Fondazione (anche se non nella sua attuale gestione).
La Fondazione ad un certo punto ha deciso di abbandonare il menù ferrarese del ristorante, che serviva pochi piatti locali ma ben fatti, che è il segreto di una buona cucina. Voleva andare su pietanze dal respiro più ampio, e per questo ha cambiato lo chef. Si è rivolta ad un cuoco di origine meridionale che aveva fatto bene a Mirandola. No, non Antonino Cannavacciuolo, G.M.
G.M. ha ampliato il menù. Voleva trasformare la Cassa di Ferrara in un ristorante da Guida Michelin. In una cucina che serviva ottimi cappelletti in brodo, cappellacci di zucca e assaggi di salamina da sugo con purè frutto dell’esperienza e della tradizione di generazioni di arzdore ferraresi, ha deciso di introdurre la coda alla vaccinara, l’impepata di cozze, la cassoeula. Roba tosta, dalla digestione laboriosa. Forse immaginava che i ferraresi potessero digerire tutto, visto che erano capaci di digerire la salama.
Ma provate voi ad ordinare i cappelletti in brodo a Napoli. Provate a mangiare una cassoeula a Roma. Provate a portare i vostri cappellacci, fatti a Ferrara, a Palermo e cuoceteli là. Cambiano gli ingredienti, la qualità dell’acqua, l’umidità dell’aria. Non saranno mai la stessa cosa. Esiste una ragione precisa, legata alla storia ed alla natura di un territorio, se un piatto diventa tradizionale in un luogo piuttosto che in un altro. E’ una nozione che appartiene a tutti noi, che fa parte del sapere diffuso.
Questo vale per le tradizioni culinarie e culturali. Non vale per le banche, il mondo nel quale si può osare, in cui tutto è possibile. Dentro qualche ufficio della Cassa di Ferrara è ancora possibile trovare un timbro ad inchiostro circolare nel quale, oltre al nome della Cassa, sono stampate le parole “prudenza” e “temperanza”, due delle quattro virtù cardinali. Nel decennio 2000-2009 di queste virtù a Ferrara si è fatto strame. L’unica virtù cardinale che si è cercato ostinatamente di perseguire è stata la “fortezza”, ma forzandone il significato teologale, che non è certamente quello di forza bruta o di potenza. Nel perseguire il disegno grandioso di fare della Cassa di Ferrara un istituto da top venti nell’agone bancario nazionale, lo chef – scelto da un gentiluomo del Papa – ha forgiato una generazione di accoliti, di chierici e di assistenti, nonché di presunti controllori della liturgia, che aveva come unica missione quella di ingrandire la Cassa fino al punto in cui la Cassa non sarebbe stata preda, ma predatore.
La Cassa ha prestato soldi a Roma, a Torre del Greco, a Milano, a Ferrara per operazioni nelle quali si è trovata fianco a fianco con i giganti del credito. Le operazioni sono andate male. In questa sede non interessa indagare se le operazioni sarebbero potute andare bene, quindi se siamo stati anche “sfortunati”. Quello che interessa è che prestare denaro per singole operazioni di importo pari al quarto del proprio patrimonio disponibile è un’operazione imprudente ed intemperante.
La Banca d’Italia in tutto questo segue una condotta ondivaga. Sotto la reggenza del governatore Fazio, allergico agli allarmi della sua stessa vigilanza interna (vedi affare Antonveneta/Banca Popolare di Lodi), asseconda la grandeur di G.M. e Santini che possono dispiegare la loro strategia espansionistica in piena libertà. La Banca d’Italia del dopo Fazio avverte Carife che la festa è finita, che è ora di tirare i remi in barca e di cominciare a vendere, a partire dalla Fondazione. Manda al posto del capocuoco megalomane una vecchia volpe delle cucine, Giuseppe Grassano, uno che vorrebbe mettere tutti a pane e acqua, anche perché ha capito che gli ingredienti sono finiti tutti dentro quei piatti lussureggianti e indigesti che sono stati cucinati in giro per l’Italia. Tra l’altro Grassano avverte la Fondazione che è ora di trovarsi un socio con dei soldi e mollare un po’ l’osso della Cassa, altrimenti saranno guai.
Ma la Fondazione fa finta di nulla. Al grido di battaglia “La Cassa ai ferraresi”, si tiene ben stretto tutto il pacchetto azionario di maggioranza. Peccato che nel frattempo molti soldi raccolti dai ferraresi erano stati “prestati”, tra gli altri, a dei campani trapiantati a Milano per un’ imponente operazione immobiliare miseramente naufragata. Quindi, mentre la Fondazione teneva alta, a parole, la bandiera della “ferraresità” della Cassa, la Cassa di G.M. aveva già investito il denaro dei ferraresi molto lontano dai propri territori d’elezione.
La proprietà del ristorante decide di non trattenere il pedante Grassano, che dopo un anno circa viene avvicendato. A rilanciare Carife viene chiamata una giovane promessa della cucina italiana, Daniele Forin. Il novello chef avrebbe il profilo giusto per una banca il cui principale problema fosse la raccolta. Peccato che dalla dispensa della cucina continuino ad arrivare cattivi odori: sono i crediti del periodo G.M., che costringono ad accantonamenti di capitale crescenti per coprirne le svalutazioni. Banca d’Italia (che sottopone Carife ad una vigilanza “rafforzata”) impone a questo punto un importante rafforzamento patrimoniale, che Carife decide di fare con un aumento di capitale destinato quasi esclusivamente al cosiddetto “pubblico indistinto”, cioè i privati cittadini. Così la Fondazione, che non ci mette un euro (anche perché ha finito i soldi), potrà mantenere la maggioranza del pacchetto e continuare ad essere padrona della Spa senza metterci un euro, appunto. 150 milioni sottoscritti in pieno, grazie al grande lavoro degli instancabili dipendenti della Banca, che “mettono l’asino dove vuole il padrone”. 150 milioni di nuovo patrimonio, che in realtà servono a coprire ulteriori accantonamenti per NPL. Ecco che il problema degli impieghi diventa un problema di raccolta: infatti, per recuperare capitale da mettere a copertura degli accantonamenti insufficienti, si collocano al pubblico azioni non quotate, divenute ormai sostanzialmente illiquide. In pratica, con l’avallo di Banca d’Italia(e l’ok di Consob), la ricapitalizzazione viene fatta coi soldi dei clienti, non del sistema istituzionale. Non so se questa prassi italica sia un unicum in Europa, altri ce lo diranno. Nel caso della Cassa l’operazione è stata fatta con azioni, nel caso di altri con obbligazioni subordinate. Ci siamo illusi di parcellizzare il rischio più di altri, perché collocare pacchetti di azioni non è come vendere obbligazioni, seppure subordinate. Come vedremo tra poco, si è trattato per l’appunto di un’ illusione.
Il valore delle azioni in pochi mesi precipita e si allontana senza rimedio dal prezzo cui erano state collocate. Un esito inevitabile: con la Banca che continua a cumulare perdite in bilancio e una popolazione (fatta anche di molti dipendenti e loro familiari) con i portafogli foderati di azioni Carife, vecchie e nuove, la sproporzione tra chi vuol vendere e chi vuol comprare è enorme, e la diga eretta dai dipendenti nei confronti dei clienti non tiene più.
Fin qui la storia della Cassa di Ferrara assomiglia a quella di molte Casse e di molte Popolari, anche più grandi, che hanno percorso la medesima accidentata mulattiera per poi precipitare (magari poco dopo di noi) nel burrone, e trascinare con loro le imprese e le famiglie del territorio.
Da un certo momento in poi, invece, il caso Carife diventa un caso pilota. Banca d’Italia, in ordine ai provvedimenti che possono essere assunti verso banche in vigilanza rafforzata, ed in particolare su Carife, scrive (è nel sito Bankit):
“Una ulteriore ispezione condotta dal settembre 2012 al febbraio 2013, inviata a causa della evidente insufficienza dell’azione correttiva della banca e del deteriorarsi della situazione, si chiuse con un giudizio sfavorevole (6 su una scala da 1 a 6) e con la constatazione di un elevato rischio di credito, di una compromissione della capacità di generare reddito e della insostenibilità della controllata Commercio & Finanza. L’accertamento rilevò un patrimonio al di sotto dei minimi regolamentari. …A seguito delle conclusioni dell’ultima ispezione, il commissariamento fu disposto il 27 maggio del 2013 per gravi irregolarità e gravi perdite del patrimonio”. Infine, Bankitalia precisa: “…compito dei commissari è quello di accertare se la banca possa essere restituita alla normalità, anche attraverso la fusione con un altro intermediario, oppure debba essere posta in liquidazione”.
Il commissariamento, messo in questo modo, sembra già un mezzo omicidio. Se non trovi un compratore devi essere liquidato, scrive Bankit. Ma le cose stanno proprio così?
L’art.72 del TUB (che è una legge, mentre ciò che scrive Bankit nel suo sito non ha valore di legge) a proposito dei poteri e funzionamento degli organi straordinari, recita che “provvedono ad accertare la situazione aziendale, a rimuovere le irregolarità ed a promuovere le soluzioni utili nell’interesse dei depositanti”. Soluzioni che, aggiungiamo noi, non sono per forza solo due: o trovi un compratore, oppure ti liquidiamo. Diversamente, non si comprenderebbe per quale ragione i commissari possano esercitare l’azione di responsabilità verso i vecchi amministratori. Lo scopo è tutelare e se possibile ripristinare il patrimonio.
Dopo appostamenti a bilancio iperprudenziali per coprire le sofferenze e gli incagli, dopo tentativi andati male di vendere prima a Vicenza, poi a Cento(tipo la Spal che vuol comprare il Bologna, tipo il Toro che vuol comprare la Juve), dopo 22 mesi di incertezza e sacrifici economici a carico di dipendenti ed azionisti, Ferrara chiude con 11 mln di patrimonio ed una prospettiva dolorosa ma concreta: il capitale che serve lo mette il Fondo Interbancario di Garanzia, che può farlo perché il suo statuto consente l’intervento qualora la banca abbia concrete possibilità di ripresa. Contestualmente, una perizia giurata del prof. Laghi stima il residuo valore dell’azione a 27 centesimi, che è il prezzo al quale i vecchi azionisti potranno acquistare, tra cinque anni, cinque azioni ogni una già posseduta. La Banca d’Italia, attraverso i suoi commissari, propone questa soluzione. Il Ministero autorizza la Fondazione a votare sì. L’assemblea dei soci vota a fine luglio 2015 di adottare questa soluzione.
Ma i soldi non arrivano. Comincia un oscuro balletto: la Commissione Europea bisbiglia che i soldi del Fondo sono aiuti di stato, il Fondo dice che non è vero ma non fa il bonifico, il Governo traccheggia, Banca d’Italia pure. Nell’incertezza supplementare che fa diventare addirittura trenta i mesi di amministrazione straordinaria (una durata che comunque ammazzerebbe un cavallo, infatti nel frattempo i depositi fuoriescono come il sangue da una ferita aperta), arriva una sinistra sera di novembre a dissipare gli ultimi dubbi. Il Governo emana un decreto, celebrato con toni entusiasti per le prime ignare 24 ore, che in cambio di capitale fresco fornito da tutte le banche in bonis del paese, abbatte il valore dei crediti a sofferenza di quattro banche(tra cui Carife) a prezzi di liquidazione immediata e di conseguenza azzera una parte del passivo, le obbligazioni subordinate ancora in scadenza. Vuol dire che una categoria di risparmiatori (spesso, le stesse persone che avevano preso le azioni) vede andare in fumo altri denari, magari investiti dieci anni prima. Le banche ripartono come nuove il giorno dopo, ripulite dalle sofferenze che sono affluite ad una bad-bank dedicata. I clienti più mazziati sono quelli che hanno dato più fiducia alla banca locale. La soluzione chiamata “risoluzione” , formalmente adottata dal Governo, sostanzialmente scritta da Banca d’Italia, contraddice in maniera radicale la soluzione proposta e fatta votare dalla stessa Banca d’Italia quattro mesi prima. La Banca d’Italia negli ultimi quattro mesi di gestione commissariale (luglio – novembre 2015) passa da un patrimonio di 11 mln (segnalato a marzo 2015), warrant per gli azionisti e buffer di liquidità adeguato alla gestione corrente ad un patrimonio negativo per 25 mln, azzeramento degli obbligazionisti e assenza di liquidità per la gestione corrente.
La domanda che sorge spontanea osservando il caso Carife è questa: tra un commissariamento e la tutela del patrimonio della banca commissariata esiste una correlazione positiva, o una correlazione inversa? La domanda prescinde da un giudizio sulla singola gestione, e investe la natura stessa del provvedimento, che depaupera oggettivamente la banca in quanto colpisce il caposaldo su cui si basa il suo rapporto con i clienti: la fiducia. Quando poi un commissariamento dura troppo a lungo e sfocia in una risoluzione il colpo è mortale.
Non interessa in questa sede fare notare come il 26 novembre, quattro gg dopo la risoluzione, il FITD abbia deliberato la costituzione dello schema volontario d’intervento (miracolosamente esente dall’accusa di aiuto di Stato), che farà interventi di ricapitalizzazione per Cassa Cesena, Rimini, San Miniato ed altre. Non interessa, se non per rilevare come questa decisione faccia ritenere che il Governo italiano ha deciso (tardivamente) di non far fallire altre banche espropriando i risparmi; le quattro colpite dalla risoluzione a questo punto potrebbero essere le sole ad aver assaggiato il bastone del bail-in all’italiana. Quindi Carife è un episodio pilota, ma probabilmente non avrà un seguito.
Adesso Cassa Ferrara è, con Etruria, Chieti e Marche, nelle mani di una Unità di Risoluzione incaricata di venderla al miglior offerente.
E’ evidente che la domanda se abbia ancora senso la banca locale è troppo semplicistica. Se, infatti, la banca locale facesse quello che ha fatto Carife per 170 anni, la risposta sarebbe uno scontato “sì”. Se la banca locale si mettesse a fare quello che ha fatto Carife nei dieci anni che abbiamo passato in carrellata, la risposta sarebbe un altrettanto scontato “no”.
Il fatto è che ci sono delle ragioni che hanno portato Carife, come molte casse risparmio, BCC, popolari, e in genere banche territoriali, a pervertire il loro business al punto da ribaltare le regole della sana e prudente gestione. Queste ragioni non stanno solo nel corto circuito tra padroni e affidati, tra concedenti e beneficiari, che spesso finisce per ammorbare l’aria delle piccole realtà di origine locale. Non stanno solo nella mancanza di prospettiva di padroni del vapore aggrappati al giocattolo che distribuisce benefici e prebende. Stanno anche nella necessità di reggere l’urto crescente di una disciplina europea fatta apposta per sbatterle fuori mercato; altrimenti non si spiegherebbero operazioni dissennate come quelle che abbiamo passato in veloce rassegna.
La domanda quindi va riformulata, in maniera più raffinata ed aggiornata ai tempi tumultuosi che attraversiamo. Ha ancora senso una banca locale di piccole dimensioni? La risposta è no. Ha ancora senso una banca di medie dimensioni che risponda anche alle esigenze di un territorio che necessita di sostegno in termini di occupazione, credito e sviluppo locale?
Le risposte possibili le lasciamo al dibattito che segue.