Gr. Bper. Cassazione: azienda deve risarcire i dipendenti se il clima sul lavoro è troppo stressante


Condividiamo l’articolo pubblicato giorni fa sul Sole 24 Ore, perché la sentenza della Cassazione introduce un principio che, potenzialmente, potrebbe rivoluzionare le nostre condizioni di lavoro.

In sintesi: se è vero che il Datore di Lavoro ha l’obbligo di tutelare la salute e la sicurezza dei suoi dipendenti, creare un clima di continua ansia contraddice quest’obbligo, e quindi lo espone a richieste di risarcimenti qualora la salute psicofisica dei dipendenti dovesse risentire del clima stressante creato sul posto di lavoro.
Questo vorrebbe dire, se applicato al nostro settore, che qualsiasi forma di pressione commerciale è da considerarsi illegittima.

A scanso di equivoci precisiamo che nell’immediato la sentenza della Cassazione non cambierà nulla: volendo chiedere il risarcimento dei danni subiti l’unica possibilità resta al momento la causa individuale che ogni lavoratore o lavoratrice dovrebbe affrontare.
Però non si può ignorare il forte segnale che arriva dalla magistratura, e che ci spinge con maggior motivazione a proseguire il nostro impegno volto quantomeno a mitigare gli effetti di pressioni sempre più insostenibili.

Per quanto riguarda la nostra azienda, la situazione va nella direzione opposta all’orientamento della Cassazione: le indicazioni che arrivano da tutti i territori ci parlano di condizioni di lavoro sempre più pesanti. Il tutto, paradossalmente, arriva nel momento in cui la redditività della Banca è ai massimi storici, e quindi un tale inasprimento delle pressioni non ha alcuna giustificazione se non la spinta a distribuire dividendi sempre maggiori agli azionisti e premi sempre più ricchi ai managers.

Sperando di riuscire, in un prossimo futuro, ad ottenere provvedimenti che possano realmente incidere sulla qualità di vita delle persone che lavorano in Bper, ricordiamo alcuni punti su cui non si può transigere.

  • Nessun rapporto di lavoro, nessuna gerarchia, autorizza una persona ad umiliare, mortificare o minacciare i suoi sottoposti. Se questo avviene siamo di fronte a fatti di estrema gravità, che possono avere anche rilevanza penale
  • Il nostro contratto di lavoro ci obbliga ad impegnarci a fondo nelle attività quotidiane, ma non impone obbligo di risultati numerici; questo vale anche per gli appuntamenti, divenuti a loro volta un obiettivo tassativo. Frasi tipo “dovete obbligatoriamente fissare 5 appuntamenti al giorno” contraddicono diverse norme, a partire dall’Art. 36 della Costituzione.
  • Non siamo indovini, e nessuno può pretendere che lo diventiamo. La richiesta di previsioni di vendita, oltre che insensata, è espressamente vietata dagli accordi nazionali ed aziendali.
  • La pubblicazione di risultati del singolo lavoratore o della singola lavoratrice, con tanto di nome e cognome in evidenza, rappresenta una diffusione di dati non divulgabili (anche ai sensi di recenti pronunciamenti del garante per la privacy) e in quanto tale va bloccata immediatamente, oltre ad esporre la Banca e la persona che la effettua al rischio di sanzioni.
  • La vendita di prodotti assicurativi e finanziari dev’essere fatta senza forzature, nel rispetto delle norme e delle reali esigente del cliente. Attenzione, perché quando arriva un reclamo chi viene punito, anche pesantemente, è sempre la persona che ha effettuato materialmente l’operazione e quasi mai il suo superiore che gliel’aveva sollecitata con enorme insistenza.

In presenza di situazioni del genere, o di tutte quelle che dovesse apparirvi non corrette, non esitate a contattare il vostro rappresentante sindacale Fisac per inviare, insieme, una segnalazione alla casella politichecommercialifisac@bper.it. Ove possibile dovremmo inviare documentazione scritta (email, screenshot), ma anche il racconto dettagliato di ciò che viene detto verbalmente può essere di grande utilità a patto di contenere tutti gli elementi utili a ricostruire l’accaduto (chi, cosa, dove e quando).

Abbiamo bisogno di portare all’attenzione dell’Azienda tutte quelle situazioni che ci portano a lavorare e vivere male, perché in assenza di segnalazioni continuerebbero a raccontarci che viviamo nel mondo migliore possibile. L’anonimato del segnalante viene sempre tutelato: quando ci siamo trovati in presenza di situazioni tali da rendere individuabile la persona da cui era partita la segnalazione, abbiamo preferito non inoltrarla.

Noi ci siamo e continuiamo ad impegnarci per arginare le pressioni, ma questa lotta può avere effetti solo se la combattiamo tutti insieme. E l’arma che abbiamo è segnalare tutti, ma proprio tutti, i comportamenti scorretti.

 

Per rintracciare la responsabilità in capo al datore basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore


Il datore di lavoro risponde per i danni alla salute prodotti sul dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante anche se gli atti che hanno causato la lesione non sono qualificabili come mobbing. La Cassazione ribadisce (sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso) che la tutela della salute dei dipendenti non si limita alla prevenzione del mobbing ma si estende a tutte le situazioni di stress da lavoro.

Appello contrario

La controversia riguarda un lavoratore che ha portato in giudizio il datore per ottenere il risarcimento delle sofferenze psichiche subite in ufficio. La richiesta risarcitoria era stata accolta in primo grado ma poi rigettata dalla Corte d’appello, che non ha riscontrato negli atti e nei comportamenti del datore quel «comune intento persecutorio» che rappresenta l’elemento costitutivo del mobbing.
Secondo la Corte d’appello, tali attive potevano, al massimo, essere qualificabili come carenze gestionali e organizzative, ma mancavano di quell’intento persecutorio necessario perché si possa parlare di mobbing.

Ribaltamento in Cassazione

La Cassazione ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non giustificano cedimenti delle misure di tutela e prevenzione.
Pertanto, secondo la Cassazione, per rintracciare una responsabilità in capo al datore non è necessaria, come si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene.

Condotte esorbitanti anche se non vessatorie

Alcune condotte, quindi, pur non essendo vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, soprattutto se sono continue e ripetute nel tempo: queste condotte, conclude la Corte, violano l’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia, e come tali generano un pregiudizio per la salute che deve essere risarcito.
Questa interpretazione conferma la tendenza della Cassazione a rifiutare letture riduttive delle responsabilità datoriali in tema di sicurezza; un approccio severo che tuttavia non deve giungere inaspettato in tema di stress da lavoro, essendo fenomeno questo già al centro delle politiche di prevenzione dei danni alla salute (è obbligatoria la valutazione del cosiddetto “stress da lavoro correlato”).

Fonte: Il Sole 24 Ore

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