
C’è una scena del celebre film Tempi moderni di Charlie Chaplin che molti ricordano: l’operaio piegato sulla catena di montaggio, costretto a ripetere all’infinito lo stesso gesto, senza mai vedere l’insieme, senza mai avere consapevolezza di ciò che sta producendo. Il suo mondo si riduce a quel singolo pezzo di ingranaggio che deve stringere, ancora e ancora, fino a diventare egli stesso parte di un meccanismo che non controlla. Questa è la rappresentazione plastica di un modello di società in cui il lavoro è ridotto a un insieme di funzioni isolate, ciascuna priva di senso se osservata singolarmente, ma indispensabile al funzionamento del meccanismo complessivo.
Per lungo tempo il lavoro bancario è stato fuori da questa logica.
Non per virtù, ma per necessità: il rapporto con la clientela richiedeva competenze polivalenti, una certa autonomia di giudizio, gestione di più fasi di un processo tenute insieme da relazioni dirette e da una conoscenza ampia delle pratiche. Pur dentro la gerarchia e la divisione dei ruoli, il lavoro aveva una propria dimensione autonoma. Le grandi riorganizzazioni dei gruppi bancari hanno però importato nel settore logiche già dominanti in altri settori produttivi: frammentazione, specializzazione, solitudine. Nelle filiali ogni persona è oggi valutata sulla base di obiettivi individuali. Non conta il risultato collettivo, non conta l’andamento della filiale nel suo insieme: ciò che viene premiato o penalizzato è la performance individuale. E negli uffici centrali la dinamica è analoga: si lavora fianco a fianco, nello stesso spazio fisico, ma ogni scrivania appartiene a un processo distinto. All’interno di un grande stanzone, possono convivere più unità che non hanno alcun legame operativo tra loro; ogni lavoratrice, ogni lavoratore si occupa di una fase limitata e non ha visione né controllo sull’insieme.
Questo processo crea una condizione permanente di isolamento e precarietà. Non solo precarietà contrattuale — basti osservare quante persone con contratto di somministrazione vengono assunte — ma precarietà delle relazioni, delle prospettive, della stessa identità professionale. Il paragone con Tempi moderni non è retorico. Se Chaplin mostrava un operaio ridotto a ingranaggio della fabbrica, oggi, nei grandi gruppi bancari, assistiamo a un processo simile: chi vi ci lavora è parte di un sistema che nemmeno comprende. La differenza è che, nella fabbrica di Chaplin, la catena di montaggio era visibile.
Nel mondo bancario, invece, la catena è invisibile, fatta di procedure informatiche, indicatori di performance, schemi di valutazione, algoritmi organizzativi e finanza complessa. Un modello che non si limita solamente a produrre isolamento, ma a trasformare la stessa idea di lavoro. Quando l’attività viene ridotta a una sequenza di gesti, quando l’obiettivo diventa un numero da raggiungere o, addirittura, rappresentazione di una realtà che non esiste (basti pensare all’indicazione di far risultare la clientela che usa FEQ come ‘a distanza’), il lavoro viene svuotato di significato.
E così, quindi, anche il valore apportato dalle persone.
La questione che ci si pone non è come adattarsi a questo modello, ma come comprenderlo per poterlo affrontare al meglio. Lavoratrici e lavoratori hanno bisogno di ricostruire legami e conoscenza collettiva attraverso pratiche che vadano oltre la vita lavorativa. Pratiche che ricostruiscano un terreno comune capace di andare al di là dei confini imposti dall’organizzazione aziendale e che mettano in connessione saperi dispersi, esperienze frammentate, bisogni che oggi vengono trattati come individuali ma che in realtà sono collettivi e che possono tirarci fuori dalla solitudine competitiva strutturale in cui siamo stati confinati. Per rompere questa condizione è necessario ricomporre legami e costruire strumenti di conoscenza condivisa in grado di dare una prospettiva comune a ciò che oggi così non ci appare.
C’è la necessità di ricercare un senso più alto e compiuto alle proprie giornate, il desiderio di sottrarsi da questi processi distruttivi e il bisogno di una socialità che differisca totalmente da quella vissuta in uffici/filiali (fatta di verticalità gerarchica, competizione, pressione organizzativa e spinta commerciale). Questo è il modello di sindacato che come CGIL proponiamo e agiamo quotidianamente. Il nostro impegno è esserci anche per rendere visibile ciò che oggi viene tenuto separato e per dare strumenti concreti a chi non vuole restare solo di fronte a un sistema che lo vorrebbe parcellizzato.