C’è una storia che somiglia molto a quella di Giulia Cecchettin. E’ quella di Liliana Rivera Garza.
Era una studentessa di architettura innamorata dei suoi studi, era sveglia e luminosa, un’amica affidabile, sagace, carismatica, una leader. Era naturale che attirasse tanti amici. Aveva un’ombra, però, che le camminava accanto da quando era adolescente. Intorno ai 16 anni aveva avuto un fidanzato che la faceva ridere, la riempiva di premure, le regalava i fiori, si offriva di portarla ovunque volesse. Però era geloso, le faceva scenate per qualsiasi cosa. A poco a poco Liliana si era resa conto della sua prepotenza e della sua mania di controllo.
Quando fu il momento di andare all’università Liliana fu ammessa, lui no. Le strade si separarono ma quella presenza tornava ossessivamente, senza annunci, senza chiedere il permesso. Lei a volte lo respingeva, a volte no.
Perché Liliana continuava a tornare a una relazione che le offriva solo instabilità e dolore?
Invece di domandarci questo domandiamoci:
Qual è la reazione più logica quando si viene attaccati da un orso?
Se un orso ti attacca, lo attacchi a tua volta sapendo che può ferirti o ucciderti oppure ti fingi morta e ti arrendi?
Le vittime restano perché sanno che qualunque movimento improvviso potrebbe provocare l’orso. Restano perché con il tempo sono riuscite a sviluppare alcune strategie capaci di calmare il partner furioso: pregano, supplicano, promettono, adulano, dimostrano pubblicamente il loro affetto per l’aggressore e gli si dimostrano alleate perfino contro le persone – polizia, avvocati ma anche amici e famiglia – che potrebbero salvare loro la vita. Le donne maltrattate restano perché vedono l’orso che si avvicina.
E vogliono vivere.
Erano stati tanti i segnali di pericolo: non si arriva alla morte dall’impeto di un momento. Il lavoro sotterraneo della violenza era cominciato molti anni prima e Liliana coraggiosa e amorevole, tentò in tutti i modi ciò che tante donne nella sua stessa posizione hanno fatto: si oppose alla violenza, cercò di sfuggirle, la rifiutò, si abituò, le resistette, la disattivò, vi scese a patti, fece tutto il possibile e immaginabile finché poco prima del femminicidio, si allontanò da lui.
Questi sono alcuni passaggi del memoir scritto dalla sorella di Liliana, Cristina Rivera Garza, attivista femminista messicana.
Quando si lascia o quando l’aggressore si rende conto che il taglio è definitivo è quello il momento in cui siamo più esposte al rischio.
E’ andata così anche per Giulia, è andata così per tantissime donne. Quasi tutte.
A partire dai luoghi di lavoro dove discriminazioni economiche e molestie sono all’ordine del giorno, dove si radicano relazioni ricattatorie, c’è bisogno di un salto paradigmatico. Bisogna riconoscerla per cancellare l’ingiustizia di genere che pervade ogni angolo della nostra società. Tante delle esperienze che hanno fatto le donne vittime di femminicidio sono le stesse che sperimentiamo tutte. E’ da questa esperienza comune che dobbiamo partire.
Siamo stanche di misurare noi stesse per evitare la furia, siano stanche di vivere in un mondo che ci assegna un’immagine a cui assomigliare, un ruolo da rispettare, le risposte da dare, un confine da non superare. Siamo stanche di non poter scegliere la libertà. Siamo stanche di fare paura.
Siamo stanche del silenzio del lutto, delle candele accese. Che le candele siano accese solo per appiccare il fuoco sulla cultura maschilista, violenta, misogina. Serve la rabbia delle donne e l’obiezione degli uomini che in questo modello culturale non ci vogliono stare.