
[La settimana scorsa abbiamo pubblicato un volantino sulla disconnessione, che terminava con un accenno alla possibilità di dire dei NO. Oggi torniamo sul tema con un articolo tratto dal blog Alley Oop, ospitato sul Sole24ore, a riprova del fatto che una sana e attiva dialettica tra le parti può giovare anche alle aziende]
In una cultura del lavoro che premia la velocità e la disponibilità continua, dire no può sembrare azzardato. Al pensiero di palesare un rifiuto, subentra la paura di perdere opportunità, di compromettere relazioni, di essere percepiti come poco collaborativi o disponibili. Il vero rischio, tuttavia, è un altro: non saper stabilire limiti. Senza “no” chiari, la giornata lavorativa si trasforma in un susseguirsi di interruzioni, il focus si disperde, le priorità si confondono. Il sovraccarico cognitivo aumenta, lo spazio mentale si riduce e il benessere cala. In definitiva: si sta male e si lavora peggio. Saper dire no significa essere capaci di porre confini chiari. E sani. Confini che non devono essere vissuti come muri, ma come protezioni che permettono di mantenere in equilibrio produttività, relazioni e benessere psicologico. Questo non significa utilizzare il “no” indistintamente, in modo perentorio, quanto piuttosto analizzare la situazione e definire la propria posizione in maniera trasparente. Vuol dire riconoscere le proprie priorità e comunicarle in maniera chiara, nel rispetto di tutte le parti coinvolte. Ciononostante, dire di no, specialmente al lavoro, resta difficile: manca la chiarezza di ciò che quel “no” porta con sé.
I “no” che non si vogliono dire
Alcuni “no” sono una forma di autocensura che nasce dalla paura del giudizio. Come anticipato, esiste il timore di apparire poco disponibili, di far arrabbiare il proprio capo, di venir meno alle proprie responsabilità verso i colleghi, così come di deludere le aspettative – proprie o altrui che siano. Sono timori spesso più che legittimi, che partono dal presupposto che il “no” implichi conseguenze negative. Proviamo però a ribaltare la prospettiva: quali conseguenze negative può portare invece un sì? Non ci si pensa, ma anche la piena disponibilità ha i suoi pericoli. In primis legati alla propria tenuta psico-fisica e alla qualità del proprio lavoro. Ne va non solo del proprio interesse, ma anche di quello dell’azienda. Serve molto lavoro su di sé per comprendere i motivi profondi per cui si fatica a declinare, ma è essenziale farlo. Solamente allentando la propria autocensura è infatti possibile stare e lavorare bene.
I “no” che non si sanno dire
La capacità di di no, ancor prima di riflettersi nelle parole, si riflette nella mente. Se si percepisce il rifiuto come un atto aggressivo che rischia di spezzare la relazione, sarà molto facile evitarlo, anche quando si vorrebbe esprimerlo. A volte, vorremmo anche dire no, ma fatichiamo ad esprimerlo perché non sappiamo come farlo. Serve dunque trovare un linguaggio coerente, che renda il “no” dicibile.
“Con il mio attuale carico di lavoro, non credo che sarò in grado di soddisfare le tue aspettative per questo progetto. Se ritieni che sia la persona più adatta per questo nuovo incarico, mi piacerebbe confrontarmi con te per rivalutare le mie priorità. È possibile?”
Le parole ci offrono gradi di libertà e spazi di manovra in più di una direzione. Questo ne è solo un esempio. Parallelamente, è possibile, prima di rispondere alla richiesta, chiedere maggiori informazioni e dettagli, così da capire se effettivamente il proprio contributo è necessario. Ancora, ci si può appellare è quello che viene definito “sì condizionato”. Una tipologia di risposta che si riflette in frasi come: “Posso farlo se posticipiamo la scadenza” oppure “Se ho il supporto del team, posso occuparmene”. La differenza la fanno sempre i confini che si sceglie di mettere.
I “no” che non si possono dire
Al di là dei gradi di libertà che si possono avere (e costruire), è pur vero che al lavoro ci sono dei “no” che proprio non si possono dire. Obblighi contrattuali o di ruolo, emergenze, direttive urgenti e non delegabili, compiti legati alla conformità legale e così via. Una categoria in realtà ben definita, che sarebbe anche piuttosto contenuta, se non fosse che finiscono per rientrarvi una serie di “no” che si possono dire, sebbene si pensi il contrario. Quante volte, dietro un “Non posso mica dire no”, si nasconde in realtà un “Non voglio” o “Non so come dirlo”? La sensazione di obbligo può essere amplificata da dinamiche aziendali, rapporti di potere o norme implicite del team. Ma se non proviamo a dire di no, non sapremo mai se il divieto è reale o autoimposto.
La domanda allora diventa: ci abbiamo provato? E di cosa abbiamo paura esattamente? È davvero probabile che accada ciò che temiamo, o è solo una proiezione? Magari è possibile che succeda, ma con quale effettiva probabilità?
Dire no è sempre, in qualche misura, un atto di coraggio. Come quando ci si tuffa da una scogliera: non si conosce ogni dettaglio dell’impatto, ma si calcola il rischio e poi si decide se farlo. Nel lavoro, è possibile agire allo stesso modo: valutare con onestà benefici e conseguenze, e scegliere di difendere il proprio tempo e le proprie energie quando serve.