Esposito (Fisac-Cgil), le concentrazioni bancarie non servono

di Tommaso NutarelliIl diario del lavoro

Gli istituti di credito tornino a occuparsi dell’economia reale. Dal governo uso improprio del golden power.

In principio è stata l’Opa di Banco Bpm su Monte dei Paschi di Siena. Poi Unicredit, che dopo aver messo gli occhi sulla tedesca Commerzbank, ha rivolto le sue attenzioni su Banco Bpm. A sua volta, la banca di Piazza Meda acquisiva Anima, mentre da Rocca Salimbeni partiva l’Opa su Mediobanca. E poi Bper su Banca Popolare di Sondrio, Ifis su Illimity. Il risiko bancario italiano assomiglia sempre di più a una trasposizione della canzone di Branduardi Alla fiera dell’est, dove tutti i soggetti sono legati tra loro. Operazioni che nel complesso interessano, potenzialmente, 100mila dipendenti, ossia un terzo di tutti gli occupati del settore credito e assicurazioni. In questo tourbillon di movimenti non è mancato l’intervento del governo, attraverso l’utilizzo del golden power, seguito dal ricorso al Tar di Unicredit e, infine, dal parere negativo della Commissione Ue, che ha espresso riserve circa l’uso del golden power per stoppare la scalata di Unicredit su Banco Bpm. Un risiko che per Susy Esposito, segretaria generale della Fisac, la categoria del credito della Cgil, nulla ha a che fare con l’economia reale: “le banche – spiega in questa conversazione col Diario del Lavoro -da tempo si stanno comportando come qualsiasi altro tipo di aziende, ma non lo sono. Così facendo tradiscono quella funzione sociale che anche la Costituzione prescrive’’.

Segretaria, che aspetto sta assumendo il mondo delle banche?

Il sistema bancario, a partire dagli anni Duemila, è cambiato profondamente, con la nascita di grandi gruppi attraverso fusioni e acquisizioni. Quella a cui stiamo assistendo è la trasformazione della banca in una normale impresa che punta al profitto. Ma non è questa la sua missione.

Che giudizio da’ sul risiko in atto?

Noi crediamo che oggi non ci sia la necessità di creare un nuovo gruppo bancario, e mi riferisco sia a Banco Bpm che a Unicredit: questo risiko nulla ha a che fare con l’economia reale e col supporto a famiglie e imprese. Non dimentichiamoci che in questo puzzle non ci sono solo le banche ma anche il mondo assicurativo, con Generali, che è una delle casseforti del risparmio degli italiani.

 Che conseguenze potrebbe avere questa tendenza al gigantismo degli istituti di credito?

La nascita di poli bancari sempre più grandi ha allontanato gli istituti dall’economia reale. Lo abbiamo visto attraverso la chiusura degli sportelli, nelle aree interne e al sud, ossia in quelle zone dove, secondo le nuove logiche che stanno seguendo le banche, non c’è possibilità di fare profitto. In questo modo è venuto meno un servizio alla cittadinanza, ma anche un presidio di legalità che la presenza degli sportelli assicurava. Il secondo punto è la crescita dei profitti da commissioni, cioè da attività finanziarie. Solo durante il covid si è avuto una leggera inversione di tendenza.

Che effetti potrebbe avere tutto questo sull’occupazione?

Nessuno dice nulla su come tutto questo impatterà, o potrebbe impattare, sui perimetri occupazionali. Quando c’è un’acquisizione si assiste a una contrazione dei presidi, o della banca che compra o di quella che viene inglobata, per il semplice motivo che entra in gioco l’antitrust.  È accaduto che degli sportelli e il relativo personale vengano ceduti ad altre banche, lasciando scoperti dei territori.

È intervenuto anche il governo attraverso il golden power. In che modo legge l’azione della politica?

Noi abbiamo sempre chiesto un intervento di regolazione del mercato da parte del governo, che deve agire quando ci sono chiusure dettate unicamente da un mero risparmio dei costi, a scapito del lavoro e dell’economia. Mentre quello che oggi il governo sta facendo è agitare il golden power con modalità che, secondo noi, sono improprie. Non a caso è intervenuta anche la Commissione europea, bocciandone l’uso fatto verso Unicredit.  I partiti di opposizione hanno presentato un’interrogazione chiedendo al ministro Giorgetti di riferire in aula.

Da parte delle banche, c’è stato un confronto con le parti sociali?

Prima c’era la buona abitudine di avviare una discussione con le parti sociali quando il settore stava andando verso delle trasformazioni. C’è sempre il confronto sui singoli piani industriali ma è venuto meno il dibattito sulle prospettive del settore. Anzi, mi ha molto colpito che nel corso delle assemblee annuali di Abi e Ania, i rispettivi presidenti Antonio Patuelli e Giovanni Liverani non abbiano fatto alcun riferimento a questo risiko. Come se non esistesse. Patuelli ha più volte detto che le banche sono in competizione tra loro e che devono andare dove c’è la possibilità di fare profitto. Una visione che non condividiamo. Ovviamente c’è la libertà d’impresa, ma un’associazione di rappresentanza dovrebbe avere interesse nel capire su dove sta andando il suo settore. Insieme ad Abi firmiamo i contratti, che non solo hanno una funzione regolatoria del salario, ma devono anticipare le prospettive future, riscrivendo tutele e diritti se necessario. Il contratto dei bancari scadrà il prossimo marzo, e quando si apriranno le trattative per il rinnovo dovremmo tenere conto degli effetti di questo risiko, dei piani industriali, che saranno presentati a inizio anno, e della digitalizzazione.

La digitalizzazione, in particolare, come inciderà sul lavoro?

Il settore ne è già fortemente pervaso. Con le aziende dobbiamo ragionare sulla sostenibilità, su come avere un’occupazione di qualità e su come salvaguardarla.  La formazione è centrale, sia come upskilling che come reskilling. Ma mentre innalzare le competenze di chi è già formato è molto più semplice, il reskilling è molto più complesso ed economicamente gravoso. Proprio per leggere le trasformazioni e intervenire con la contrattazione d’anticipo il 22 settembre in Abi ci sarà l’istituzione della cabina di regia prevista dal contratto. C’è poi un tema di obsolescenza rapida della formazione e delle abilità acquisite. Dobbiamo poi fare i conti con la difficolta nel trattenere una parte dei lavoratori. Abbiamo notato che nel giro di un anno se ne va tra il 12-15% della forza lavoro. I giovani non chiedono solo il salario ma anche il tempo, anche se non si rendono conto che il settore offre una serie di strumenti, come il welfare o il fondo pensione, che altri non hanno.

 

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