
Dall’intervento di Maurizio Landini
Un Paese ostaggio di precarietà e bassi salari
L’Italia vive una condizione di squilibrio sociale e lavorativo senza eguali in Europa. I livelli di sfruttamento, precarietà e bassi salari sono tra i più alti del continente: milioni di persone lavorano ma restano povere, costrette a contratti frammentati, a carriere interrotte e a salari che non garantiscono un’esistenza dignitosa.
Non è un problema generazionale, né la colpa dei giovani che scelgono di emigrare in cerca di futuro: la responsabilità è di una classe politica e dirigente che non ha saputo mettere al centro la qualità del lavoro come fondamento della qualità del Paese. Il modello economico attuale continua a privilegiare la riduzione del costo del lavoro invece che la valorizzazione delle persone.
Per invertire questa tendenza, è necessario rinnovare i contratti collettivi nazionali, a partire dai settori strategici come metalmeccanica, telecomunicazioni e sanità privata. Rinnovare i contratti significa aumentare i salari, investire in formazione, sicurezza e stabilità, ma anche ridare forza alla contrattazione come strumento di democrazia.
Una legge sulla rappresentanza per cancellare i contratti pirata
La proliferazione dei cosiddetti contratti pirata — accordi firmati da organizzazioni prive di reale rappresentanza — ha eroso il sistema dei diritti e indebolito il potere contrattuale dei lavoratori. Per porre fine a questa distorsione serve un passo concreto: una legge sulla rappresentanza sindacale.
Una normativa che garantisca a tutte le lavoratrici e i lavoratori il diritto di votare i propri delegati, di eleggere i rappresentanti alla sicurezza in ogni luogo di lavoro, grande o piccolo, e di approvare con voto segreto e maggioritario i contratti collettivi.
Solo così un contratto può dirsi valido: quando è espressione diretta della volontà di chi lavora.
Questa è la base per costruire una democrazia reale nei luoghi di lavoro, capace di restituire dignità e potere a chi oggi è escluso dalle decisioni che determinano la sua vita quotidiana.
La forza delle testimonianze: giovani, lavoratori, donne
La piazza si riempie delle voci di chi ogni giorno vive sulla propria pelle le contraddizioni del sistema produttivo. Le storie raccontate dai giovani e dai delegati di fabbrica diventano il simbolo di un sindacato vivo, radicato e concreto.
C’è chi, come i lavoratori di alcune aziende industriali, ha condotto oltre cento ore di sciopero e sedici giorni di presidio per ottenere stabilità e superare la precarietà. C’è chi ha firmato il primo rinnovo contrattuale nella catena McDonald’s, portando diritti dove prima non esistevano.
C’è chi, nel settore pubblico, denuncia un paradosso: i servizi fondamentali — scuola, giustizia, sanità — si reggono su lavoratori precari, che garantiscono il funzionamento dello Stato senza tutele e senza futuro.
Le testimonianze parlano anche di pari opportunità e di lotta alla cultura maschilista ancora radicata in molti ambienti di lavoro. Denisa, tra gli interventi più sentiti, richiama l’urgenza di un cambiamento culturale che riconosca la differenza di genere come valore e non come ostacolo.
È questa la Cgil: il sindacato che rappresenta la vita reale delle persone, che ascolta, organizza e costruisce alternative.
Una battaglia di civiltà per la sanità pubblica
Al centro dell’agenda sociale emerge una priorità inderogabile: difendere e rilanciare la sanità pubblica. Dopo anni di tagli, privatizzazioni e liste d’attesa infinite, milioni di cittadini non riescono più a curarsi.
Nasce così una campagna nazionale per una legge di iniziativa popolare che riaffermi il diritto universale alla salute come pilastro di civiltà. Servono risorse vere e un piano straordinario di assunzioni: medici, infermieri, operatori socio-sanitari, ispettori del lavoro e tecnici della prevenzione.
Difendere la sanità pubblica significa assicurare l’applicazione effettiva della legge 194, riconoscere il diritto delle donne all’autodeterminazione, garantire assistenza a disabili e non autosufficienti, rafforzare la medicina territoriale e investire nella prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Un Paese che lascia morire i propri cittadini per mancanza di cure o di sicurezza è un Paese che ha smarrito la sua umanità.
Democrazia al lavoro: giustizia sociale e redistribuzione
“Democrazia al lavoro” non è uno slogan, ma un progetto politico e sociale. Non c’è democrazia se chi lavora resta povero, se il sistema fiscale continua a colpire solo dipendenti e pensionati mentre evasori e grandi patrimoni restano intoccabili.
Non c’è democrazia se l’età pensionabile cresce a livelli record — la più alta d’Europa — mentre milioni di giovani non avranno mai una pensione dignitosa. È una realtà inaccettabile in un Paese che aveva promesso di superare la legge Fornero e che invece l’ha peggiorata, erodendo ulteriormente i diritti previdenziali.
Occorre introdurre una pensione di garanzia per i giovani, rivalutare tutte le pensioni, estendere la quattordicesima e tutelare chi vive con assegni minimi. La giustizia sociale passa da qui: redistribuire la ricchezza e restituire dignità al lavoro.
Cultura, libertà di stampa e indipendenza della magistratura
Tra i tagli previsti dalla manovra economica, quelli alla cultura, al cinema e allo spettacolo rappresentano un grave segnale di regressione. Colpire la cultura significa indebolire uno dei motori identitari e produttivi dell’Italia, un Paese che nel mondo è conosciuto per la sua creatività e la sua capacità di raccontare se stesso.
In parallelo, cresce la preoccupazione per gli attacchi alla libertà di stampa e all’indipendenza della magistratura. La giustizia non migliora indebolendo chi la esercita o subordinando i magistrati al potere politico; migliora assumendo personale, riducendo la precarietà e garantendo trasparenza e autonomia.
Difendere la libertà di informazione e la cultura non è una questione di categoria: è difendere la democrazia sostanziale del Paese.
Una legge di bilancio senza visione e senza investimenti
La manovra economica predisposta dal governo viene descritta come un provvedimento privo di prospettiva, incapace di affrontare la crisi produttiva e di creare sviluppo. Al di là della propaganda, i numeri parlano da soli: nei documenti ufficiali inviati all’Unione Europea, alla voce “investimenti pubblici” per il 2026, la cifra è pari a zero.
Un dato che, da solo, racconta la gravità della situazione. Mentre la produzione industriale cala, la cassa integrazione cresce e numerosi settori — siderurgia, automotive, chimica, tessile — rischiano chiusure e licenziamenti, il Paese viene lasciato senza un piano industriale, senza un progetto di rilancio.
Le imprese chiedono scudi e agevolazioni per continuare a sfruttare filiere basate su caporalato e lavoro nero, invece di assumersi la responsabilità di cambiare modello produttivo.
L’assenza di investimenti pubblici e privati non è una questione tecnica, ma una scelta politica che condanna il Paese al declino. Il lavoro non si crea con gli slogan, ma con investimenti strutturali e politiche industriali vere, capaci di sostenere la transizione produttiva e la riconversione ecologica.
Gli utili che arricchiscono pochi e impoveriscono molti
Il problema è sistemico. Uno studio di Mediobanca dimostra che l’80% degli utili realizzati dalle imprese italiane dal 2014 ad oggi non è stato reinvestito, ma distribuito agli azionisti sotto forma di dividendi e operazioni speculative.
In altre parole, la ricchezza prodotta dal lavoro non torna al lavoro, ma alimenta la disuguaglianza. Mentre i profitti crescono come mai prima, gli investimenti industriali ristagnano, e con essi la produttività, i salari e l’occupazione stabile.
Questo meccanismo genera una spirale perversa: chi lavora produce valore, ma quel valore viene trasferito verso l’alto, concentrando ricchezza nelle mani di pochi e precarietà nella vita di molti. È il segno di un capitalismo finanziarizzato, dove il guadagno immediato prevale sulla crescita collettiva.
La politica industriale che non c’è
Quando si parla di politica industriale, occorre chiarire un punto fondamentale: non può esistere politica industriale senza investimenti nel lavoro e nella formazione.
Ogni riconversione produttiva, ogni innovazione tecnologica, ogni transizione ecologica richiede interventi pubblici mirati, sostegno ai territori e un sistema di imprese che scelga di competere sulla qualità e non sullo sfruttamento.
Invece, le politiche economiche attuali sembrano orientate nella direzione opposta: nessuna misura strutturale per l’industria, nessun piano per il lavoro, ma un’unica spesa pubblica in crescita — quella per le armi e il riarmo militare.
Il paradosso della spesa militare
La manovra prevede un incremento consistente delle risorse destinate alla difesa, ma questa spesa — lungi dal rafforzare un progetto di sicurezza europeo — finanzia in gran parte l’acquisto di armamenti prodotti negli Stati Uniti.
Non si tratta dunque di un investimento nella difesa comune, ma di una subordinazione industriale e politica che sottrae risorse a settori vitali come la sanità, l’istruzione, la cultura e la sicurezza del lavoro.
Sostenere la pace, la democrazia e l’autonomia europea significa investire non nelle armi, ma nelle persone, nei servizi pubblici e nell’economia reale.
La finta detassazione: un aiuto solo di facciata
Tra le misure sbandierate dal governo come favorevoli ai lavoratori c’è la detassazione dei salari, presentata come un passo avanti. Ma si tratta di un provvedimento parziale e discriminatorio.
La detassazione riguarda soltanto i lavoratori con redditi fino a 28.000 euro lordi e soltanto nel settore privato, escludendo intere categorie — dal commercio ai servizi pubblici.
Un’operazione che non risponde alla richiesta avanzata dal sindacato, che chiedeva una detassazione universale, per tutti i lavoratori, pubblici e privati, come strumento di equità e redistribuzione.
La politica fiscale, così concepita, non corregge le disuguaglianze ma le accentua, e si somma a un problema più grave: il “fiscal drag”, il drenaggio fiscale che erode silenziosamente il reddito netto dei lavoratori.
Fiscal drag: la tassa invisibile che colpisce i lavoratori
Il drenaggio fiscale è un meccanismo per cui, quando aumenta l’inflazione o il salario lordo, ma scaglioni, detrazioni e soglie ISEE restano invariati, il lavoratore finisce per pagare più tasse pur avendo lo stesso potere d’acquisto o addirittura meno.
In tre anni, secondo i dati ufficiali degli uffici parlamentari, dipendenti e pensionati hanno versato 25 miliardi di euro in più di tasse che non avrebbero dovuto pagare, proprio a causa di questo meccanismo.
Il sindacato chiede da tempo che queste somme vengano restituite e che si introduca una rivalutazione automatica delle detrazioni e degli scaglioni, in modo da evitare che l’inflazione si trasformi in un furto di reddito. Un sistema fiscale giusto deve proteggere chi lavora, non penalizzarlo.
Privatizzare la giustizia e la sanità: una deriva pericolosa
Non investire nella giustizia, nella scuola e nella sanità pubblica significa aprire la strada alla loro privatizzazione.
Dietro la mancanza di risorse e la retorica della “razionalizzazione” si nasconde un disegno preciso: spostare interi settori fondamentali della società nelle mani del mercato.
La sanità pubblica, pilastro del diritto alla salute, viene progressivamente indebolita da tagli, esternalizzazioni e precarizzazione del personale. Lo stesso accade nella scuola, dove la cronica carenza di insegnanti, fondi e strutture spinge sempre più famiglie verso l’istruzione privata.
E ora la giustizia rischia la stessa sorte: un sistema diseguale, dove la tutela dei diritti dipende dalla disponibilità economica dei cittadini.
Questa prospettiva non è neutra: smantellare i servizi pubblici significa erodere la democrazia.
Quando salute, istruzione e giustizia diventano beni di mercato, la cittadinanza perde il suo significato, e la società si divide tra chi può permettersi i diritti e chi ne resta escluso.
Il diritto alla casa: un’emergenza dimenticata
Tra i diritti fondamentali negati emerge con forza quello all’abitare. Oggi in Italia il problema della casa colpisce un numero crescente di persone: studenti fuori sede senza alloggi accessibili, famiglie sfrattate, cittadini schiacciati da affitti insostenibili o mutui gravosi.
A fronte di questa emergenza, il governo ha tagliato il Fondo nazionale per il sostegno agli affitti, privando i Comuni di uno strumento essenziale per aiutare le fasce più deboli.
Manca completamente una politica pubblica per l’edilizia sociale, capace di garantire alloggi dignitosi e accessibili.
Il diritto alla casa, come quello alla salute e al lavoro, è una condizione essenziale della democrazia: senza un tetto, senza sicurezza, senza la possibilità di vivere con stabilità, ogni altra libertà diventa astratta.
Una maggioranza silenziosa che tiene in piedi il Paese
Dalla piazza emerge la forza di una maggioranza reale, fatta di lavoratori, giovani, donne e pensionati che ogni giorno sostengono il Paese con il proprio impegno e la propria intelligenza.
È una parte di società che non si sente rappresentata, che si è stancata di promesse disattese e di governi che ascoltano solo gli interessi forti.
Questa maggioranza invisibile è il cuore pulsante dell’Italia, quella che lavora, che crea, che cura, che insegna, che fa funzionare tutto ciò che ancora regge. E chiede semplicemente di essere ascoltata e rispettata.
Un impegno collettivo per il cambiamento
Il percorso non si ferma qui. Le richieste avanzate — più investimenti pubblici, una legge sulla rappresentanza, la difesa della sanità, la giustizia fiscale e il diritto alla casa — verranno portate al Parlamento e al Governo con la determinazione di chi sa di rappresentare una maggioranza sociale.
Il sindacato chiama a una mobilitazione unitaria, invitando anche le altre organizzazioni sindacali a unirsi in un fronte comune per la dignità del lavoro e dei diritti.
L’obiettivo è chiaro: ottenere risposte concrete, non parole.
E se queste risposte non arriveranno, la promessa è netta: verranno messi in campo tutti gli strumenti democratici e sindacali, fino a raggiungere il cambiamento necessario.