Pensioni: chi ha più contributi può prendere meno

Una rivalutazione all’1,4% che non recupera l’inflazione

La perequazione delle pensioni per il 2026, fissata dal decreto Mef del 19 novembre all’1,4%, non riesce a recuperare la forte perdita di potere d’acquisto causata dall’impennata inflattiva del biennio 2022–2023. L’analisi tecnica degli uffici Previdenza della Cgil nazionale e dello Spi Cgil evidenzia come gli aumenti previsti risultino già oggi erosi dall’Irpef e dalle addizionali, riducendo l’impatto reale a incrementi minimi o addirittura simbolici.

Gli aumenti medi lo confermano chiaramente:

  • Pensione minima: +3,12 euro (da 616,67 a 619,79 euro)

  • 632 euro netti → 641 euro (+9 euro)

  • 800 euro netti → 850 euro (+9 euro)

  • 1.000 euro netti → 1.011 euro (+11 euro)

  • 1.500 euro lordi → +17 euro netti

“Numeri che parlano da soli”, denuncia il sindacato: non si recupera la perdita accumulata, e si continua su una strada che impoverisce chi vive già con redditi insufficienti.

Il fisco si riprende la rivalutazione

Sul piano lordo gli assegni crescono del +16,46% tra 2022 e 2026, grazie al meccanismo dell’indice Foi. Ma nella vita reale il quadro cambia completamente: l’Irpef assorbe una quota crescente dell’aumento.

Le aliquote medie effettive esplodono:

  • Su 800 euro lordi: dal 5,38% (2022) all’8,78% (2026)

  • Su 1.000 euro lordi: dal 10,19% al 12,91%

  • Su 2.000 euro lordi: dal 17,07% al 18,42%

Risultato: gran parte dell’aumento finisce per essere riassorbita dal fisco. La perequazione diventa così un meccanismo che ricostituisce il gettito statale più che tutelare il potere d’acquisto delle pensioni.

Il paradosso delle pensioni basse: chi ha più contributi può prendere meno

Un nodo strutturale messo in luce dalla Cgil riguarda lo squilibrio tra pensioni assistenziali/maggiorate e pensioni contributive basse.

Le pensioni integrate al minimo e le maggiorazioni sociali sono esentasse e arrivano nel 2026 a circa 770 euro netti al mese, grazie alla perequazione e all’aumento strutturale della legge di bilancio.

Al contrario, chi ha una pensione contributiva di poco superiore agli 8.500 euro annui – soglia della no tax area, ferma da anni – paga Irpef e vede gli aumenti neutralizzati dal prelievo.

Tre casi esemplari della Cgil lo mostrano con chiarezza:

  • Pensione A (contributi bassi + integrazione + maggiorazioni): 749 euro netti

  • Pensione B (più contributi, piccola maggiorazione): 710,47 euro netti

  • Pensione C (contributi più alti, nessuna maggiorazione): 745,97 euro netti

Chi ha lavorato e contribuito di più può trovarsi con meno in tasca rispetto a chi percepisce prestazioni assistenziali. Un effetto indesiderato prodotto dall’assenza di coordinamento tra perequazione, fisco e maggiorazioni sociali.

La posizione della Cgil: servono interventi strutturali

La segretaria confederale Lara Ghiglione e il segretario nazionale Spi Lorenzo Mazzoli chiedono al Governo misure concrete e non “operazioni di facciata”. Due le priorità principali:

1. Rafforzare e ampliare la quattordicesima mensilità

Strumento considerato essenziale per sostenere i redditi pensionistici più bassi.

2. Estendere la no tax area per i pensionati

Gli aumenti reali vengono oggi assorbiti dall’Irpef, e le pensioni più basse scivolano nella povertà.

Il sindacato contesta anche la “narrazione” governativa su flessibilità in uscita e superamento della Fornero: dietro gli slogan – afferma – “non c’è una riforma, ma un arretramento dei diritti”. Inoltre, dal 2027 l’età pensionabile salirà ancora, mentre gli assegni saranno più poveri.

Verso lo sciopero del 12 dicembre: pensioni al centro della mobilitazione

Gli aumenti da tre, cinque, nove, undici, diciassette euro sono per la Cgil “una vergogna” e rappresentano una delle ragioni principali dello sciopero generale del 12 dicembre, che porterà in piazza il tema delle pensioni insieme a salari e precarietà.

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