La tesi contro la flessibilità: “Non porta più lavoro”

Due economisti mettono in relazione l’andamento della disoccupazione e l’indicatore Ocse che traccia la “protezione del lavoro”. In Italia c’è stato un percorso di deregolamentazione nell’ultimo ventennio, soprattutto per i contratti a termine, ma di nuovi posti di lavoro ne sono stati creati ben pochi. MILANO – Contrordine, la flessibilità del mercato del lavoro non è un sinonimo di rilancio dell’occupazione. A questa conclusione potenzialmente dirompente, nel mezzo dell’approvazione del decreto Poletti sul lavoro (uno dei due pilastri del Jobs Act del governo Renzi), sono arrivati Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito. All’Università del Sannio il secondo è ricercatore, mentre il primo ne ha diretto il Dipartimento di analisi dei sistemi economici e sociali; Realfonzo è stato assessore critico di De Magistris a Napoli, dal quale si è separato in polemica, nonché uno dei sostenitori delle linee anti-austerità in Italia ed Europa.
La tesi parte dal porsi la domanda se una maggiore flessibilità – che si persegue nel mercato del lavoro italiano con le norme del decreto Poletti -, e in particolare la liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine, generino un aumento dell’occupazione. Il ministro Poletti, incassando la fiducia del Parlamento, si è detto convinto che il decreto legge non aumenti la precarietà: “E alla fine – scommette – i numeri ci daranno ragione”. Ma il tasso di disoccupazione scenderà?

Per rispondere si è guardato al passato. Uno strumento utile alla ricerca è fornito dall’Ocse, che traccia l’Employment Protection Legislation Index (Epl). Si tratta di un indice in grado di misurare il livello di “protezione” del lavoro in base alla legislazione vigente nei Paesi membri. Si compone di 21 indicatori, spalmati in 3 aree principali: protezione dei lavoratori contro i licenziamenti individuali; regolamentazione dei tempi indeterminati; specifiche ulteriori riguardanti i licenziamenti collettivi. Attribuisce un voto, per intendersi, alla legislazione dei Paesi su parametri quali le procedure necessarie per notificare un licenziamento individuale (da 0 se basta la parola, a 3 se è necessaria una comunicazione scritta validata da terze parti). In questa graduatoria, una maggiore flessibilità corrisponde a un indice Epl più basso.

Analizzando l’andamento dell’Epl dal 1990 ad oggi, i ricercatori notano come l’Italia sia stata tra i maggiori “deregolamentatori” del lavoro: ha “portato l’indicatore di protezione del lavoro dal 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013”, scrivono nell’articolo pubblicato sulla rivista Economiaepolitica.it. Oggi, è sotto il livello di Spagna, Portogallo e Francia e poco sopra Olanda, Finlandia, Germania, Belgio e Grecia. Mettendo in correlazione questo andamento e l’evoluzione del tasso di disoccupazione, gli studiosi annotano che quest’ultima tende ad aumentare all’aumentare della flessibilità.
Precarietà

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