Non ci sono solo Google e Apple la sfida delle app alle banche

By: Kārlis DambrānsCC BY 2.0

da Repubblica.it – Al momento è un’alleanza. Per disegnare la sua nuova piattaforma di trading, Intesa Sanpaolo si è affidata a una startup italiana, Marketwall. Che ha sfondato grazie a una app per monitorare titoli e indici da tablet e smartphone: “Volevamo offrire ai nostri clienti un’esperienza migliore, e ci siamo resi conto che comprare una soluzione già funzionante era meglio che costruirla da zero”, spiega Massimo Tessitore, 44 anni, responsabile della Banca multicanale di Intesa. Ma il rapporto con la giovane azienda innovativa andrà anche oltre. Intesa, attraverso Banca Imi, gestirà le transazioni di tutti gli utenti di Marketwall, installata di default su ogni device Samsung. E ha un’opzione per entrare dal 2018 nel capitale della startup: “Operazioni come questa potranno essere replicate in altri segmenti del business – aggiunge Tessitore – è una strada efficace per sviluppare la nostra identità di banca innovativa”.

Perché la sfida della Silicon Valley sta arrivando anche nella finanza, come ha avvertito l’ad di JPMorgan Jamie Dimon. Da una parte la concorrenza di giganti dell’It come Apple, Facebook o Google, che ai loro milioni di utenti cominciano a offrire servizi di pagamento. Dall’altra quella delle oltre 12mila startup finanziarie, agili e smart, su cui i finanziamenti venture, in un solo anno, sono passati da tre a 12 miliardi di dollari. Quale potrebbe essere l’impatto del fintech, l’innovazione applicata al credito, è McKinsey a stimarlo nel suo rapporto annuale sul settore: le banche tradizionali, da qui al 2025, potrebbero perdere tra il 10 e il 40% del fatturato e tra il 20 e il 60% degli utili. «Se non cambiano modello di business entro tre, cinque anni, rischiano di seguire le sorti di Kodak o Polaroid, disrupted, mandate in pensione dalla fotografia digitale », attacca Gabriele Vigo, senior partner della società di consulenza. Perché il 2014 sarà stato pure da record per gli utili del credito globale, ma la pressione sui margini non fa che crescere. «I clienti si stanno spostando rapidamente online, anche in Italia – continua – e le banche finora si sono limitate a rendere digitali i processi tradizionali». Non inventarne di nuovi, come invece fanno gli operatori fintech, puntando su un rapporto più intuitivo con i consumatori, di cui conoscono vita e miracoli. Avere un prestito così diventa facile quanto comprare una canzone su iTunes: “Ormai il cliente si aspetta la stessa semplicità anche quando interagisce con una banca”, dice Luca Gasparini, responsabile Multi channel banking di Bpm. Non a caso la metà degli operatori fintech si concentra sulle attività retail. Nel settore dei pagamenti, dove si sono lanciati anche Apple e Facebook, una startup come Stripe è già valutata 5 miliardi di dollari.

La più ricca quotazione tecnologica dello scorso anno è stata Lending Club, piattaforma di prestito peer-to-peer. Ma ora la concorrenza si sta espandendo anche al credito per le piccole imprese, che grazie alla struttura snella e una valutazione più sofisticata del merito le fintech offrono a condizioni migliori. E verso attività dai margini più golosi come la gestione del patrimonio: Betterment e Wealthfront hanno del tutto automatizzato i processi, tagliando le commissioni. Mentre su Nutmeg gli utenti ottengono un profilo di investimento rispondendo a poche, semplici domande. Un ribaltamento di prospettiva, nota Riccardo Lamanna, al vertice in Italia di State Street Global Services, una delle maggiori banche depositarie globali: “Le offerte degli operatori tradizionali sono condizionate da un retaggio culturale e da vincoli normativi, quelle delle fintech partono dalla relazione con il cliente”. L’evoluzione della regolazione è aspetto centrale di questa partita tra operatori finanziari e non. Le nuove normative sempre più stringenti zavorrano i primi. Allo stesso tempo sconsigliano agli operatori tech di diventare banche, spingendoli piuttosto ad appoggiarsi agli istituti di credito per l’operatività. Magra consolazione, secondo Lamanna: “Le banche rischiano di diventare infrastrutture per servizi venduti da altri”. Certo, solo una piccola parte delle startup sopravviverà.

Ma anche se il fintech catturasse solo una parte del business, sostiene McKinsey, farà comunque salire la pressione competitiva. Alcune banche internazionali stanno reagendo con una strategia di acquisizioni. BlackRock ha appena rilevato la startup di gestione automatizzata FutureAdvisor. Ubs e Bbva hanno creato fondi venture e team di sviluppo con licenza di sperimentare. «Ma la prima leva – dice Vigo – è accelerare sulla digitalizzazione di servizi e prodotti. Molte delle banche italiane neppure hanno una roadmap in questo senso». Anche perché la rivoluzione è profonda, di cultura e processi. Non basta trasformare in pdf il mucchio di scartoffie da compilare per un prestito, occorre ridurlo a due, massimo tre click. “Nella prima fase la digitalizzazione è stata soprattutto eliminazione della carta – riconosce Gasparini – la seconda, con il mobile, dovrà ridefinire prodotti e offerte. ”.

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