Il Sol dell’Avvenire

Fiducia, nell’enciclopedia Treccani, è definita come “atteggiamento, verso altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, e che generalmente produce un sentimento di sicurezza e tranquillità”.
Avere fiducia che un credito ti verrà restituito era, fino a ieri, un concetto particolarmente forte quando il tuo debitore era una banca. Quando si voleva alludere a una scelta affidabile (tipo passare la palla a Pirlo), una frase usata come paragone era “è come mettere i soldi in banca”. Dalla fine di novembre 2015, mettere i soldi in banca può essere molto rischioso.
Il meccanismo di “risoluzione” – asettica parola da sicario – delle banche adottato in Italia in supina adesione alle decisioni dell’Unione Europea è, per come è stato introdotto, un modo scellerato di risolvere le crisi bancarie, che sono quasi sempre originate da crediti impagati, per la grave crisi economica o perché concessi male, in maniera clientelare, avventata o sovradimensionata. La malagestio dei CdA e dei manager la pagano quindi, d’ora in avanti, i clienti
della banca. Sembra una vendetta trasversale: i clienti non mi ridanno i miei soldi, io non rendo ai clienti i loro soldi (azioni, obbligazioni). Peccato che non parliamo quasi mai delle stesse persone.
In teoria è un’idea che ha una sua logica: se non sei consapevole dei rischi che ti assumi, giusto che ci rimetti. Ma il sistema bancario e gli organi di vigilanza mettono i clienti nelle condizioni di valutare i rischi che corrono nel sottoscrivere un prodotto? Ci sarebbe la MIFID, un complesso sistema di norme illeggibili per un non addetto ai lavori, che è il modo migliore perché nessuno le legga. Quindi la MIFID non tutela i clienti ed i risparmiatori, tutela le banche: se ti ho fatto firmare tutta la carta che la MIFID prescrive, vuol dire che ti ho informato. Quindi, se perdi i soldi, cavoli tuoi.
Ma c’è dell’altro. Nelle banche popolari e nelle casse di risparmio in particolare, l’acquisto di azioni dell’istituto e di obbligazioni subordinate non era un’operazione speculativa o pazza, ma un modo di diversificare il proprio investimento. Del resto, i rendimenti offerti non erano talmente elevati da suscitare sospetti, e gli aumenti di capitale (anche al pubblico indistinto) erano autorizzati ed anzi sollecitati dalla vigilanza.
Per questo, considerare gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati alla stregua di giocatori d’azzardo che hanno perso al casinò, contiene una mistificazione che ha qualcosa di osceno. Si dice che abbiamo evitato il bail-in, ma non è vero: abbiamo evitato la liquidazione, ma parte dei risparmiatori partecipano alle perdite per primi. Che cos’è questo se non un parziale bail-in?
Una normativa di tale portata avrebbe bisogno di una previa formazione al rischio fatta sui risparmiatori, ma anche sugli amministratori delle banche, sempre impegnati a massimizzare gli utili di breve periodo. Farlo così, a tradimento, sulla pelle dei cittadini, autorizza il sospetto che la vigilanza vigili solo quando c’è da abbattere il valore di una banca così da abbassarne il prezzo di acquisto. Come farlo? Con un commissariamento, magari fatto subito dopo un aumento di
capitale. Così si distrugge un territorio, non solo una banca.
Così introdotte, in una lugubre e furtiva domenica pomeriggio, le nuove norme non hanno nulla di giusto, tantomeno di etico. Soprattutto, minano il rapporto con il risparmiatore introducendo un elemento di paura, cui il risparmiatore reagirà punendo i piccoli istituti, in una grossolana quanto irrazionale (ma comprensibile) fuga verso il più sicuro in quanto “grande”. Finché in dieci anni le banche non saranno un oligopolio. E durante questo percorso i dipendenti sputeranno lacrime e sangue, ed i risparmiatori perderanno altri soldi.

Comunicato

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