Gli economisti Bce ai governi: allentate i cordoni della borsa

da repubblica.it –  ROMA – Convinti che l’austerità abbia strangolato l’economia europea molto di più di quanto Berlino e Bruxelles siano disposti ad ammettere? Che il cartellino rosso della Ue ai deficit di bilancio di Madrid e Lisbona sia una forma di tafazziano autolesionismo? Che gli errori di conto sulla Grecia non siano un’eccezione? Che è il momento di rianimare la moribonda economia europea con potenti incentivi fiscali a consumi e investimenti? Non siete soli: lo dice anche la Bce.

Molte di queste cose, in realtà, le sostiene da tempo il Fondo monetario internazionale (o, almeno, il suo ufficio studi). Qui, però, l’avvertimento non viene dalla remota Washington, ma dal cuore dell’Austerilandia tedesca: da Francoforte, dove la Bce di Draghi comincia a sembrare una pattuglia di eretici assediati in territorio ostile. E, in effetti, come ai tempi dell’Inquisizione, l’eresia viene fatta circolare in bella vista (nel caso specifico, la homepage della Bce) ma sepolta sotto grafici e formule matematiche e proposta all’interno di un dibattito che più esoterico non si può: la discussione sull’output gap, l’equivalente economico del sesso degli angeli.

L’output gap, infatti, in natura non esiste, non si può vedere, non si può misurare e non tutti sono d’accordo su cosa sia esattamente. Come spiegano Marek Jarocinski e Michele Lenza nell’articolo sull’ultimo numero del Bollettino Bce, in linea di principio corrisponde alla deviazione dell’attività economica (reale) dal suo potenziale (presunto). Le complicazioni vengono subito dopo. Perché, in periodi di economia fiacca, un output gap grande in assoluto, perché l’economia si è fermata, reclama incentivi alla domanda, ma se il problema è, invece, che il potenziale dell’economia cresce troppo lentamente, ci vogliono riforme strutturali che la rilancino. Insomma, siamo sempre lì, dalla crisi del 2009: lo stimolo fiscale di Obama o le riforme di struttura targate Schaeuble?

Obama, dicono i due ricercatori della Bce. Ma si guardano bene dal dirlo ad alta voce. Per arrivare a questa conclusione, infatti, confrontano diversi modelli matematici che consentono di stimare l’ampiezza dell’output gap. Qual è il migliore? Quello, rispondono, che fornisce la previsione più solida della tendenza di fondo dell’inflazione (quella “core”, senza cibo e benzina, troppo volatili). Sulla base di quel modello, la crisi è costata all’economia europea, soltanto nel 2014 e nel 2015, un output gap del 6 per cento. Di tanto l’economia europea ha rallentato rispetto al potenziale. Una frenata spaventosa che travolge le stime ufficiali, limitate, per gli ultimi due anni, al 2-3 per cento: se ne ricava che l’economia europea non si è solo fermata, ma sta colando a picco. In ogni caso, come dicono i due ricercatori, significa che le stesse stime ufficiali “sottovalutano l’ampiezza del rallentamento economico dell’area euro”.

Al contrario, l’ipotesi alternativa non trova riscontro nel modello: il trend di crescita del prodotto potenziale (quello che l’Europa potrebbe produrre se non ci si mettesse di mezzo una congiuntura negativa) non è stato intaccato dalla crisi dopo il 2010. In altre parole, l’output gap è troppo largo, l’economia reale va rilanciata e “politiche dirette a stimolare la domanda aggregata (per via monetaria e di bilancio) dovrebbero giocare un ruolo anche più importante nel mix della politica economica”. E’ una assoluzione per il Qe, il Quantitative easing lanciato dalla Bce con il rastrellamento di titoli pubblici, ma anche l’aperto invito ai singoli governi ad allargare i cordoni della borsa per stimolare l’economia.

Photo by gedankenstuecke

Back to top button