Mentre nel resto dell’Europa, i lavori “accessori” sono ben circoscritti ad attività autenticamente occasionali, soprattutto svolte da studenti e pensionati, la cui tracciabilità è stata sin dall’inizio un elemento caratterizzante, in Italia l’esplosione dei voucher rivela tutt’altra realtà, che incide pesantemente sul mercato del lavoro introducendo elementi distorsivi, i cui effetti ricadranno pesantemente, come cerchiamo di dimostrare in questo dossier, anche sulle posizioni assicurative previdenziali dei lavoratori e sugli importi delle loro pensioni. Con l’estensione a tutte le tipologie di lavoro, introdotta con il governo Monti, si è aperta la strada ad ogni tipo di abuso dei voucher, fino a soppiantare altre forme contrattuali. L’esplosione delle vendite dei cosiddetti buoni lavoro sono la logica conseguenza di questa scelta. E il decreto sulla tracciabilità del ministro Poletti non è bastato a frenarne lo sviluppo. La precarietà indotta da questi comportamenti investe non soltanto i settori dei servizi, ma anche quelli manifatturieri e del settore agricolo. Gli ultimi dati Inps rilevano che nel 2016, sono stati venduti 133,8 milioni di voucher, con un incremento rispetto al 2015 del 23,9%. Ancora più preoccupante è l’analisi dei dati relativi al 2015, quando la differenza tra i voucher acquistati (115 milioni) e quelli effettivamente riscossi (88 milioni) era di 27 milioni. Sempre secondo l’Inps, in quell’anno, la platea dei voucheristi era di 1.380.000 lavoratori, considerando anche quelli che ne hanno percepito almeno uno in un anno (di 7,50 euro, al netto degli oneri contributivi e della quota di servizio a beneficio dell’Inps), mentre i committenti erano 473 mila. Ogni lavoratore ha percepito in media un compenso annuo di 478,5 euro, pari a un numero di buoni di 63,8 voucher.
Una tendenza che non è stata ancora smentita neppure dalle statistiche del 2016, secondo le quali solo un terzo dei buoni lavoro è stato utilizzato dalle famiglie, mentre i due terzi da imprese, a dimostrazione di come ci si sia allontanati dallo scopo originario per cui erano stati istituiti.
I dati sono ancor più sconfortanti se si estende l’analisi dell’andamento all’inizio della grave crisi economica e occupazionale. Nel 2008, anno in cui l’uso del voucher era espressamente previsto dalla legge di riforma Biagi del 2003 (decreto legge n. 276) per remunerare soltanto piccoli lavoretti occasionali, se ne sono venduti mezzo milione e i percettori erano poco meno di 25 mila, con un’età media di 60 anni. Dopo la cancellazione di ogni limite di applicazione (attuata prima, con la riforma Fornero e la legge n. 134 del 2012 e poi con la conversione in legge del decreto legge n. 76/2013 che ha definitivamente cassato la definizione legislativa del “lavoro accessorio eliminando l’accezione di “natura meramente occasionale” ), l’età dei cosiddetti “voucheristi” si è abbassata a 36 anni, con una affermazione preoccupante della presenza di donne (il 52%).
Questi sono i fatti!
In questo contesto, è difficile non vedere come i voucher abbiano soppiantato altre forme di lavoro, che nulla hanno a che vedere con quelle chiaramente “accessorie”. E non basta certo qualche ritocco legislativo per riportare all’originario scopo per cui i voucher sono stati istituiti. A subirne le conseguenze saranno soprattutto i giovani che, oltre ad essere interessati da un tasso di disoccupazione ancora altissimo (quasi il 40%), si vedranno comprimere ancora di più i loro diritti previdenziali.