articolo tratto dal sito della Fondazione Falcone (www.fondazionefalcone.it)
Giovanni Falcone è stato un magistrato italiano che ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia senza mai retrocedere di fronte ai gravi rischi a cui si esponeva con la sua innovativa attività investigativa, mosso da uno straordinario spirito di servizio verso lo Stato e le sue istituzioni. È stato tra i primi a identificare Cosa Nostra in un’organizzazione parallela allo Stato, unitaria e verticistica in un’epoca in cui si negava generalmente l’esistenza della mafia e se ne confondevano i crimini con scontri fra bande di delinquenti comuni. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso dal primo importante pentito di mafia, Tommaso Buscetta, e, negli anni seguenti, da altri rilevanti collaboratori di giustizia.
Grazie al suo innovativo metodo di indagine ha posto fine all’interminabile sequela di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli anni ’70 e ’80. Il metodo si avvale di indagini finanziarie presso banche e istituti di credito in Italia e all’estero e permette di individuare il movimento di capitali sospetti. Esso è tuttora adottato a livello internazionale per combattere la criminalità organizzata.
Rigore investigativo, indagini finanziarie ed estrema capacità di coesione all’interno del gruppo che è passato alla storia come il “pool antimafia”: queste le caratteristiche che hanno permesso la realizzazione del primo maxiprocesso alla mafia, il più grande risultato mai conseguito contro Cosa nostra. L’eccezionale lavoro di un manipolo di magistrati guidati da Falcone approdò al dibattimento pubblico che vide alla sbarra 475 mafiosi, tra boss e gregari. Esemplare la sentenza, che consentì alla magistratura di condannare all’ergastolo l’intera direzione strategica di Cosa nostra. Accuse poi confermate fino in Cassazione.
Il 23 Maggio 1992, Giovanni e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto, una Croma marrone, una bianca e una azzurra li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura. Ma poco dopo aver imboccato l’autostrada che congiunge l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione (500 kg di tritolo) disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
La fine di Giovanni Falcone potrebbe essere letta come una sconfitta dei giusti e dello Stato, come la fine di una speranza, ma in realtà la sua morte ha rappresentato l’inizio di una vera rinascita della società civile, che ha spinto le istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre quasi al tappeto Cosa nostra. Tutti i più grandi latitanti, tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine non conosce soste. È importante, però, che l’azione non si fermi. Qualsiasi indecisione o allentamento della tensione giova a Cosa nostra. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani, mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e fare propria la lezione di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato.