CGIL: Covid-19 e carcere

Roma, 9 aprile 2020

A TUTTE LE STRUTTURE

Oggetto: Covid-19 e carcere

Care compagne e cari compagni,

La situazione in cui versano gli Istituti Penitenziari in Italia è nota da tempo, ed è stata oggetto di sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: il sovraffollameno rende impossibile assicurare condizioni di vita dignitose ai detenuti, e gli operatori di Polizia Penitenziaria scontano condizioni di lavoro molto problematiche, a fronte anche di una cronica carenza di personale. Nonostante il dettato costituzionale, il sistema penale è ancora centrato sul reato piuttosto che sulla persona. Le misure alternative trovano difficoltà ad essere applicate, l’assistenza sanitaria non viene correttamente garantita, lo stato di salute dei detenuti, come dimostrano i dati dalla Società Italiana di Medicina Penitenziaria, è sempre più compromesso. Il lavoro dei detenuti è residuale, ed abbiamo un numero di Magistrati di Sorveglianza, educatori, psicologi, assolutamente insufficiente per garantire i percorsi di rieducazione e reinserimento che dovrebbero essere il fine ultimo della pena. Ogni anno, dobbiamo contare un alto numero di episodi di autolesionismo, e di suicidi fra i detenuti e fra il personale di Polizia Penitenziaria.

Per questo, fin dall’insorgere dell’emergenza coronavirus, la CGIL, come molte Organizzazioni della società civile e del mondo della Giustizia, ha denunciato la situazione all’interno degli Istituti Penitenziari italiani, tale da non garantire le più elementari norme di prevenzione e sicurezza, ed ha chiesto e proposto interventi volti ad arginare la diffusione del contagio. Il virus ha reso visibile a tutti una situazione nota da tempo: la sentenza Torreggiani è del 2013, ma ben poco da allora è stato fatto.

Solo il 1 aprile il DAP ha fornito i primi dati: 116 agenti contagiati, su 38mila, e 19 detenuti, su oltre 58mila. Da più parti però si ritengono questi dati sottostimati, anche per l’impossibilità di eseguire controlli su tutti. Ed il 2 aprile si è saputo del primo decesso: in ospedale a Bologna, dopo poche ore dal ricovero, è morta una persona di 76 anni, detenuta da 2 anni in attesa di giudizio. Alcuni provvedimenti, nel frattempo, dopo il decreto legge del 23 febbraio, si sono succeduti per affrontare l’emergenza Covid-19, ma nessuno di questi ha affrontato il tema carcere in maniera adeguata.

La circolare del DAP del 21 marzo ha stabilito la proroga della sospensione dei colloqui con i familiari e delle attività dei volontari e delle associazioni. Abbiamo quindi accolto con favore, l’impegno all’acquisizione di oltre 1600 telefoni mobili, e il successivo acquisto di ulteriori 1600 cellulari da parte del DAP, insieme alla possibilità di effettuare i videocolloqui senza spesa per i detenuti, anche se appartenenti al circuito di alta sicurezza.

E’ stato un primo passo nella direzione auspicata dalla nostra Organizzazione, che va nel senso di quanto (insieme ad Antigone, Arci, Anpi e Gruppo Abele) avevamo recentemente richiesto, affinché potessero essere significativamente aumentati il numero e la durata delle telefonate possibili per ogni persona ristretta. Anche il DL 18 del 17 marzo (Cura Italia) ha previsto misure specifiche per il carcere e la popolazione carceraria.

Ma se possiamo affermare che il Governo, con quel decreto, recependo anche alcune nostre istanze e richieste, ha adottato misure in buona parte condivisibili a tutela della salute dei cittadini, altrettanto non possiamo dire per quanto riguarda il carcere, sia nei confronti dei detenuti che degli operatori tutti. Le misure previste con gli articoli 86, 123 e 124 sono insufficienti per le finalità stesse del decreto, fermare la diffusione del virus ed evitare i contagi, alla luce della situazione oggettiva in cui si trovano a vivere tutte le persone che, ristrette o per lavoro, abitano il carcere. Mancano risposte in grado di incidere in maniera significativa sul sovraffollamento, che rischia di far diventare il carcere un moltiplicatore di contagi, mancano le indispensabili misure precauzionali e di prevenzione, sia per i detenuti che per tutti gli operatori. Operatori che devono essere messi in condizione di lavorare in sicurezza, e con dotazioni organiche adeguate.

Il carcere è una istituzione totale, di per se patogena, in cui le persone ristrette sono costrette a vivere in spazi ridotti, troppo spesso inadeguati sia dal punto di vista strutturale che igienico: celle pensate per una persona dove ne convivono almeno tre, servizi igienici in comune e a vista, promiscuità. Spazi che rendono impraticabile, a situazione data, la compiuta sanificazione degli ambienti. Con un sovraffollamento che a febbraio di quest’anno era del 120%. Una situazione in cui è del tutto impossibile pensare al “distanziamento sociale”, in cui mancano luoghi idonei per l’isolamento delle persone contagiate, laddove si rendesse necessario, dove pochi sono gli spazi allestiti per il triage dei nuovi giunti, a cui si aggiunge la carenza, se non l’assoluta mancanza, di dispositivi di protezione per tutti, operatori e detenuti.

L’art. 123 “disposizioni in materia di detenzione domiciliare” è quello che suscita maggiori perplessità, essendo, nei fatti, inadeguato a dare risposte al problema del sovraffollamento, che se non affrontato, rende del tutto inapplicabile ogni intervento di prevenzione e di profilassi. Si tratta di una mera operazione di facciata, in quanto le norme vigenti, che già prevedono la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare per i condannati a pene detentive fino a 18 mesi, o con un residuo di pena da scontare inferiore a 18 mesi, non sono state in grado di incidere sul sovraffollamento. Introduce alcune semplificazioni procedurali, ma, al contempo, preclusioni che rendono ancora più limitata l’applicazione della norma. Infatti, si escludono tutti coloro che siano stati sanzionati per aver partecipato a qualsiasi titolo a disordini e sommosse, e tutti coloro per i quali sia stato redatto un rapporto disciplinare. E’ evidente l’intento punitivo di tale previsione, in un decreto che dovrebbe invece riguardare esclusivamente le risposte e le misure da adottare in termini di prevenzione e di salute rispetto ad una grave emergenza sanitaria.

L’articolo esclude i detenuti senza domicilio effettivo, mentre anche per questi potrebbero essere trovate soluzioni alternative, strutture di accoglienza adeguate.

Stabilisce che, salvo si tratti di detenuti minorenni e condannati a pena da eseguire inferiore a 6 mesi, si applichino le procedure di controllo mediante mezzi elettronici. E’ persino inutile spendere parole su questo: sappiamo dell’esito delle gare effettuate negli anni scorsi per la fornitura dei braccialetti elettronici, sappiamo che ad oggi non ve ne sono disponibili a sufficienza: come potrà essere applicata questa misura, a quante persone e con quali tempi, se l’urgenza è dare risposte immediate, vista la diffusione del virus? Il Ministro della Giustizia ha dichiarato che i braccialetti disponibili saranno nel tempo 5000, e che se ne installeranno 300 a settimana. A conti fatti, ci vorranno almeno 4 mesi per averli tutti, ben oltre i tempi dettati dall’emergenza.

Nulla si dice poi di come ci si attivi nei confronti delle persone ristrette ultrassantacinquenni, che fuori dal carcere sono oggetto di misure specifiche, o dei detenuti con condizioni di salute precarie, con patologie pregresse, con fragilità particolari.

Secondo dati di Antigone, la misura, prevista dalla L.199/2010, ha permesso nei primi 2 mesi del 2020 l’uscita di appena 303 persone. Una misura, quindi, priva di concreta efficacia deflattiva già in situazione normale, che risulta ancora più limitata dai requisiti necessari, a norma dell’articolo, per accedervi. Ed allora la domanda è: come si possono garantire le necessarie misure di prevenzione a cui tutti siamo tenuti, a partire dal distanziamento sociale? Perchè nei luoghi pubblici ancora aperti siamo tenuti a rispettare la distanza di almeno un metro, ed in carcere no? Come si garantisce la salute dei detenuti e degli operatori in queste condizioni?

Nei giorni scorsi, con Antigone, Arci, Anpi e Gruppo Abele abbiamo richiesto di intervenire seriamente sul sovraffollamento carcerario, con azioni concrete in termini di prevenzione e tutela della salute, avanzando anche proposte sulle iniziative da intraprendere per rispondere a questa grave emergenza.

Non possiamo che riconfermarle, ricordando che “il grado di civiltà di un paese si misura osservando le sue carceri”. Chiediamo che si eliminino le restrizioni introdotte per l’accesso al beneficio, e, soprattutto, di eliminare la previsione dei controlli a distanza.

Inoltre, chiediamo di prevedere la detenzione domiciliare per le persone che abbiano problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus Covid-19; di prevedere misure alternative alla detenzione in carcere per le persone ultrasessantacinquenni, in assenza di pericolosità sociale, di trasformare in provvedimenti di detenzione domiciliare i provvedimenti di esecuzione delle sentenze emesse nei confronti di persone che si trovano a piede libero (salvo motivati casi eccezionali) e di estendere la liberazione anticipata con norme applicabili retroattivamente fino a tutto il 2018.

Inoltre, riteniamo indispensabili misure idonee a tutela degli operatori, con la fornitura immediata e straordinaria di DPI a tutto il personale e l’immediata e progressiva sanificazione di tutti gli ambienti carcerari. In questo modo, si potrà intervenire in maniera più efficace nei confronti del sovraffollamento carcerario, e provare a raggiungere, per quanto possibile, obiettivi di distanziamento sociale anche in questi luoghi.

Sarebbe bastato un semplice decreto, diversi ne sono stati adottati in questo periodo motivati dall’emergenza sanitaria, mirato alla scarcerazione di un numero consistente di detenuti, rispondenti a determinati requisiti, per dare una risposta certa e veloce ai problemi del carcere, per garantire sicurezza a detenuti ed operatori. Non è stato fatto, ed oggi, 8 aprile, inizia la discussione in aula del decreto legge. Confidiamo che, anche a seguito delle dichiarazioni del Presidente Mattarella, si discuta seriamente del problema carcere, e che si trovino risposte efficaci ed immediate, nonostante le dichiarazioni del Ministro, e le politiche del Governo sui temi della detenzione e della giustizia rimangano deboli, senza prospettiva, e ci preoccupino molto le dichiarazioni che si succedono su “certezza della pena”, declinata come più carcere e meno misure alternative.

Il diritto alla salute è un diritto fondamentale in capo a tutti gli individui, non può essere declinato diversamente a seconda del luogo di lavoro, o della assenza di libertà dovuta all’essere ristretti in carcere.

Una epidemia in carcere avrebbe conseguenze devastanti per tutti. Il coronavirus obbliga al ripensamento, che la CGIL chiede da tempo, sulle scelte fatte negli anni riguardo le politiche sanitarie, ci chiede anche di riprendere la discussione sulla riforma organica dell’ordinamento penitenziario.

La Segretaria Confederale
Rossana Dettori

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