Un anno fa il primo numero del Punto, e in questo tempo sospeso la distanza temporale sembra farsi ancora maggiore rispetto allo scenario così complesso e drammatico che oggi viviamo, che ci ha divelto ormai da due mesi da pratiche e abitudini quotidiane che ciascuno di noi viveva come normali e scontate, come i festeggiamenti per il 25 aprile che per la prima volta nella storia non ci hanno visti tutti insieme radunati nelle piazze del Paese a festeggiare questa ricorrenza così importante nella storia italiana.
Dopo l’attacco terroristico alle Torri Gemelle del 2001 e la crisi finanziaria del 2008, la guerra contro questo virus invisibile e così contagioso – un minuscolo pacchetto di RNA avvolto da una capsula di proteine – è il terzo evento, dall’inizio del millennio, a ribaltare la storia, a scompigliare ogni certezza, a tramortire le nostre vite in una condizione che scuote e percuote le fondamenta anche della nostra democrazia, che vive anch’essa in un tempo sospeso.
Ragioni della produzione e tutela della salute, la ricerca di un equilibrio è il punto intorno al quale ruota la questione della cosiddetta “Fase Due”.
Un cerbero a due teste, il decisore politico e il decisore scientifico, ognuno dei quali riflette una parte di verità.
L’avevamo già vissuto quest’estate con la difficile questione legata all’Iva di Taranto ma ancora una volta assistiamo alla necessità del bilanciamento di interessi costituzionali, il diritto alla salute e quello all’iniziativa economica.
In questo bilanciamento di diritti, quello alla salute deve assumere un ruolo primario e pregiudiziale rispetto agli altri.
Stavolta non possono esserci pressioni o forzature. Quando ci sono state, abbiamo visto com’è finita.
Il problema è trovare la sintesi, ma quello che appare evidente è la paura della decisione: affrontare il presente, salvando le persone dalla minaccia del contagio, garantire il futuro, proteggendole con la certezza del lavoro.
Scontiamo in questa delicatissima fase il limite della “veduta corta” di Padoa Schioppa, l’incapacità cioè di andare oltre il calcolo di breve periodo e di guardare il futuro, in uno sfilacciamento istituzionale che diluisce la responsabilità della decisione fra task force, virologi, esperti e chi più ne ha più ne metta.
Molte delle scelte assunte sino ad ora hanno però già determinato una ferita sociale nel Paese, una ferita che non si rimarginerà certo con la fine dell’epidemia ma sulla quale le diseguaglianze e il numero dei disoccupati che avremmo saranno come sale che la farà bruciare per lungo tempo.
L’allarme è indiscutibile e i numeri, quelli economici, sono certamente importanti: il Paese perde dagli’8 ai 10 punti di Pil in due semestri, le aziende bruciano fatturato per 100 miliardi al mese e il Made in Italy lascia sul campo 30 miliardi di export.
Ma l’analisi nei “numeri” della sua drammaticità ci impone di andare oltre e non misurare tutto in ciò che si traduce in Pil.
Nella riflessione del Punto dello scorso mese avevo chiuso proprio con l’immagine di Enea e Anchise, ecco noi siamo convinti che a pagare il prezzo più alto in termini di perdite umane siano stati proprio i più deboli, i nostri anziani, che anziché essere portati sulla schiena, si sono ritrovati vittime di un modello sociale che ha impedito ad esempio ai nostri giovani di andare via di casa e per questa via ha accelerato e diffuso i contagi aumentando l’indice di mortalità.
Occorrerà ripensare il nostro modello sociale, provare a riflettere su come salvaguardare la tenuta del sistema sanitario rispetto a futuribili emergenze sanitarie anche in relazione all’interazione sociale delle fasce più deboli della popolazione, anziani e bambini.
L’infido Coronavirus ha smascherato le tante storture del nostro modello sociale, tant’è che purtroppo solo nel gestire questa terribile contingenza si è ad esempio palesato alla società italiana il valore del nostro sistema sanitario nazionale come bene comune, come valore che deve tornare ad essere pregiudiziale anche rispetto alle scelte di politica economica e finanziaria che negli anni ne hanno falcidiato risorse e strutture, pensiamo soltanto alla devolution sanitaria che ha alimentato gravi e pesanti disuguaglianze fra nord e sud.
E in quest’ottica si riapre prepotente la questione dell’opportunità o meno di lasciare la scelta di agire in capo ai diversi 21 sistemi sanitari regionali o se sia meglio una guida centralizzata per fronteggiare a livello uniforme i pericoli di una epidemia che è diventata ormai questione mondiale, e con la quale sono certo che nel tempo purtroppo torneremo a misurarci.
Questa vicenda prima o poi finirà, e saremo costretti a ripensare tutto anche prendendo consapevolezza della grande fragilità delle catene industriali lunghe, figlie della globalizzazione e per questa via ipotizzare un reshoring, un ritorno delle attività produttive dall’Asia verso l’Europa anche con un rilancio dell’impegno verso un cambiamento delle priorità e del funzionamento del modello economico neoliberista.
Ma se è vero che il virus segna uno spartiacque nella storia del paese, vogliamo poter immaginare anche da qui una ipotesi di palingenesi sistemica.
Pianificare una nuova modernità, sgombrando il campo dall’attesa messianica di un’ora “X” e provare a ripartire garantendo standard di sicurezza codificati, severi e omogenei in tutte le aziende e su tutto il territorio nazionale.
Sarà essenziale lavorare sulla costruzione di una nuova normalità, un modello fondato su nuovi patti, sulla qualità dei diritti, in cui il riparto di competenze sia chiaro e ben definito, in cui si torni ad investire e a dare il giusto valore all’avanzamento sociale che la ricerca scientifica è in grado di apportare al Paese, in cui tutte e tutti riacquistiamo chiaro e nitido il senso e il valore dei diritti sociali e delle libertà fondamentali.
Sarà necessario iniziare a guardare il benessere con occhi diversi, entrare nell’ottica che il benessere economico non è solo frutto di un indice di borsa o di quello del Pil.
Il Pil di questi mesi conta anche gli incassi dei forni crematori, o quello delle aziende che stanno producendo respiratori, ventilatori, mascherine a prezzi gonfiati, il Pil conta anche gli investimenti fatti da chi ha trasferito capitali nei paradisi fiscali o di chi ha sottratto risorse al welfare e con quei capitali ha acquistato le macerie di asset strategici.
Il Pil calcola anche le grate, le serrature blindate che abbiamo messo nelle nostre case, ma non calcola la qualità della vita, il benessere delle nostre famiglie, la qualità dell’istruzione dei nostri figli, i momenti di libertà di cui possiamo godere, il Pil non calcola il valore sociale di una comunità e non calcola tutto quello che rende la vita degna di essere vissuta.
Come italiani, ci troveremo a (s)contare parecchie morti economiche oltre a quelle causate dal virus, morti che rimandano all’esasperante pratica di precarizzazione del lavoro, perché se c’è un elemento fallace del modello produttivo pre-Covi-19, è l’aver svilito il valore delle persone, il valore del lavoro anche del lavoro più semplice, l’aver tolto professionalità al lavoro, aprendo così la strada al precariato piegati dal mantra del maggior profitto.
La ferita che l’epidemia sta producendo nel mondo del lavoro sanguinerà per lungo tempo, milioni di disoccupati nel mondo, centinaia di migliaia solo nel nostro Paese.
Come categoria, abbiamo sino ad oggi lavorato per garantire la sicurezza del settore sia sotto il profilo della sicurezza e salute, con il Protocollo del 14 marzo sul lavoro, sotto il profilo salariale con l’accordo del 16 Aprile, anche con una tensione alla confederalità, dialogando con ABI per favorire, al netto delle criticità procedurali che abbiamo sollevato, l’erogazione di liquidità alle imprese e garantire l’anticipo della cassa integrazione per le lavoratrici e i lavoratori.
Quanto alla categoria è difatti improprio parlare di Fase 1 o Fase 2 poiché, in quanto servizio pubblico essenziale, non abbiamo mai in effetti subito interruzioni;
quello che impatterà e dovremmo gestire sarà la Fase 2 in relazione al possibile maggior afflusso di clientela; siamo ben consapevoli che questo processo non sarà legato ad un giorno ma alla capacità che avremo di gestirla in modo chiaro, riorganizzando il mondo del lavoro, la mobilità delle persone costruendo condizioni di assoluta sicurezza per il lavoro, per le lavoratrici , i lavoratori e clientela, tenendo sempre ferma la bussola sulle previsioni del CCNL che in questa fase si configura come uno straordinario strumento a tutela del settore rispetto alle modalità e ai tempi di lavoro.
Il nostro obiettivo è stato sin da subito teso a che nessun lavoratore dovesse perdere elementi salariali e anche l’accordo del 16 Aprile sull’Accesso al Fondo di categoria per il sostegno a reddito è un accordo in garanzia anche dei più deboli, un accordo stipulato con la stessa ratio con la quale abbiamo sempre respinto la logica di un accordo quadro nelle fasi del rinnovo del Ccnl, perché è necessario che tutte e tutti abbiamo anche in questa contingenza abbiano stesso salario, stesse tutele, stessi diritti.
La giornata del 28 aprile ci ha visti nuovamente impegnati unitariamente alle altre sigle sindacali rispetto alla sottoscrizione del secondo Protocollo di settore in materia di “Misure di prevenzione contrasto e contenimento della diffusione del virus Covid-19 per garantire l’erogazione dei servizi del settore bancario ai sensi del DPCM 26 aprile 2020”, che, a far data dal 4 maggio e sino alla cessazione delle misure di emergenza, segue e sostitusice in coerenza ed adeguamento ai provvedimenti normativi del Governo, il Protocollo del 16 Marzo 2020.
Un Protocollo che nella sua articolazione mette in sicurezza il settore anche in questa delicatissima Fase 2 che coniunga le ragioni di settore, anche specifiche quelle di ABI – che non ha mai inteso delegare la propria rappresentanza a Confindustria-, con l’anima e i contenuti del Protocollo Confederale del 24 aprile allegato tra l’altro al DPCM del 25 aprile
In questo quadro così complesso e in condizioni negoziali difficili, siamo riusciti a definire le linee del piano industriale Unicredit, garantendo un rapporto uscite assunzioni del 50%, un’attenzione alle aree più deboli del Paese con la previsione di due nuovi poli a Napoli e in Sicilia, oltre ad un soddisfacente numero di assunzioni.
La crisi che stiamo vivendo ha acceso un faro sull’importante ruolo sociale delle banche, delle agenzie come presidio territoriale come punti di riferimento sociale.
Siamo convinti che il ruolo del sistema del credito vada anch’esso rivisto rispetto alla ripartenza, è il tempo di tornare a declinare il credito , il risparmio e il lavoro a servizio dello sviluppo e della produttività individuando nuove risorse che non gravino fiscalmente il reddito da lavoro, ed in questo senso intendiamo proseguire con l’analisi che ha dato vita al “Manifesto della buona finanza” per una ricostruzione del Paese su patti nuovi, patti da costruire sulla base di analisi e proposte, per i quali servirà unita, unità del quadro politico, delle persone e anche nostra come organizzazione sindacale.
In quest’ottica abbiamo dato avvio ad un percorso di ascolto della platea del direttivo, dei territori e dei gruppi perché anche se distanti non possiamo e non dobbiamo rinunciare all’esercizio della nostra pratica democratica.
E’ questo il momento di provare a sfruttare la discontinuità ordinaria che la contingenza che stiamo affrontando ha determinato per risolvere i nodi irrisolti del sistema e innescare un percorso di ripartenza, che non aggredisca fiscalmente i redditi da lavoro, anche per sgravare le generazioni future dall’aumentata percentuale di indebitamento determinata dalla corposa immissione di liquidità nel sistema.
Questa particolare contingenza deve scardinare la logica di tagli allo stato sociale che ha animato nel nome dell’austerità le precedenti crisi.
Sarà necessario affrontare il ruolo dei capitali finanziari e ripensare un sistema fiscale che sia progressivo e che una volta per tutte inneschi un percorso di lotta e contrasto all’evasione fiscale.
Occorre in questa fase che tutte e tutti ciascuno per il proprio ambito facciano la loro parte per una ricostruzione sociale, culturale ed economica del Paese.
Il post Covid-19 sarà come un dopoguerra, con le sue macerie e la necessità di ricostruzione.
Generazioni passate chiamate a ricostruire il Paese dopo la guerra, noi oggi siamo chiamati a ricostruire il Paese dopo questa pandemia e a dare una prospettiva di futuro e di uguaglianza anche alle generazioni future e ai più deboli, guardando il mondo con gli occhi degli ultimi per evitare che le distanze e le diseguaglianze diventino incolmabili.
Il punto di realtà prima o poi si affermerà, vinceremo se saremo capaci di anticipare il virus e non rincorrerlo, anche con una attenzione a sfuggire da pericolosi slittamenti lessicali, il rischio è che le categorie cliniche dei “contagiati” e degli “immuni”, appropriate nell’emergenza sanitaria, possano rimanerci appiccicate e fissarsi in un paradigma politico (i giovani sani contro i vecchi malandati, il Centro-Sud guarito verso il Nord contaminato, gli italiani prima degli stranieri), occorrerà vigilare affinché il “distanziamento sociale”, necessario per contenere il contagio, non si traduca in una diffidenza permanente, in una propensione collettiva all’immunizzazione da ogni rischio rappresentato dalla relazione con l'”altro”:
chi di qua, chi al di là di una linea invalicabile, fisica e metaforica.
Nutro speranza per una nuova rinascita del Paese, che intravedo nella grande prova di disciplina, del senso della collettività che come popolo abbiamo manifestato nell’ottemperare alle faticose misure di distanziamento sociale e contenimento della mobilità che tanto hanno impattato sulla nostra naturale tendenza alla socialità.
Voglio salutarvi tutte e tutte con un pensiero rivolto alla ricorrenza del 1° Maggio, che mai come quest’anno è di straordinaria intensità per il senso e il valore che il lavoro ha assunto nella gestione di questa emergenza, il lavoro svolto dalle persone che mai come oggi si sono rivelate essenziali e necessarie rispetto alla tenuta di tutto il Paese.
“Se la celebrazione del Primo Maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo.
Il Primo Maggio, infatti, esalta la potenza del lavoro e le priorità e la nobiltà della sua funzione nella vita d’ogni società umana”
Giuseppe Di Vittorio, dal numero 17 del «Lavoro» uscito il 26 aprile 1953.
Distanti ma uniti
Buon lavoro a tutte e a tutti
Il Segretario Generale – Giuliano Calcagni